Sueño #4: visioni al Museo di Pietrarsa
Testo e regia: Sara Sole Notarbartolo. Con: Cristina Donadio, Valentina Curatoli, Raffaele Balzano.
In scena al Napoli Teatro Festival il 13 e 14 giugno 2013, Sala delle locomotive, Museo Nazionale di Pietrarsa
Al museo di Pietrarsa si sente il rumore del treno che passa e l’odore del mare. È un posto surreale a cui si arriva con una piccola deviazione da corso San Giovanni a Teduccio. La Sala delle locomotive è la prima entrando a sinistra. Dentro, ci sono vagoni molto antichi, vetture che hanno attraversato tempi e luoghi lontani, tra cui il treno che portava il re di Napoli e la sua famiglia dalla reggia di Portici in città. Sueño #4 va in scena qui.
All’ora del tramonto, l’interno della locomotiva diventa la cornice di questa lenta apparizione onirica, in cui i tre protagonisti, vestiti totalmente di bianco, ripopolano questo luogo come degli spiriti. Ninetta (Valentina Curatoli), Morgana (Cristina Donadio) e Pepe/Pachito (Raffaele Balzano) si alternano su questo orizzonte bloccato di beckettiana memoria: camminano sulla banchina, salgono e scendono dalla carrozza di «questo treno [che] non partirà mai», dando vita a un movimento tutto interno, che è quello dei ricordi, delle passioni.
Le vicende sono un susseguirsi di lucidità e follia, di rimorsi e nostalgia; le azioni vengono ripetute e diventano gesti di un rito sospeso nel tempo. Come in un sogno è difficile stabilirne le coordinate spazio-temporali: assistiamo a piccoli frammenti strappati al secolo scorso, storie di amore e di guerra, di inganni e di attese, di cui Ninetta è letteralmente prigioniera. La guerra e, dunque, la morte (del figlio maschio/fratello minore/promesso sposo Raffaele Balzano) è uno dei motivi ricorrenti delle vicende rappresentate. Due delle tre date che vengono ripetute in scena sono appunto il 1918 e il 1944, oltre al 1839, che ricorda la corsa del primo treno in Italia, sulla tratta Napoli-Portici.
Ma anche questi sono appigli ingannevoli: nulla è reale e ciò che sembra tale non fa altro che rivelare l’inconsistenza, l’assurdità dell’esistenza: un amore disatteso, un lutto a metà, un prete che porta calze da donna sotto la veste sacrale. Ognuno ha dentro di sé un posto dove tutto si accumula e si perde, «un buco nella testa che mi scappano via le cose», come dice Ninetta. Ed è in quel posto che noi spettatori veniamo trattenuti, per tutta la durata dello spettacolo.
Anche il cambio linguistico contribuisce a questo senso di frastornamento e incertezza. Da Cordoba passiamo a Napoli e viceversa: in quest’alternanza lo spagnolo è la lingua dell’anima, della passione, della poesia e del canto. Quando Morgana sussurra in spagnolo alla figlia una parvenza di spiegazione per tutti questi fatti incomprensibili, non è necessario capire il significato di ogni parola, ma piuttosto godere a pieno del loro suono, di quell’oscillare lento e ondoso che ci accompagna, come una ninna nanna nel sonno.
Eppure Ninetta da questo sonno si deve destare: «Sei qua per svegliarti, non sei qua per dormire!», le urla a un certo punto Morgana, ed è notevole il contrasto, drammaturgico e di resa scenica, tra l’ingenuità idealista della ragazza e il savoir faire spigliato e impertinente di una splendida Cristina Donadio, a metà tra nobildonna spagnola, popolana napoletana, e madre padrona. Dal sonno ci si deve svegliare per sbloccare il meccanismo di ripetizione e immobilità, il treno deve partire. Ninetta, incagliata su questo binario, ostaggio della memoria e della fantasia, deve crescere e abbandonare il sogno.
Chi vede lo spettacolo avrà il compito di stabilire se ci riuscirà. «Quando il sole cala non c’è più tempo e nella Sala delle locomotive si sta facendo sera». I nostri fantasmi, allora, si dissolvono e il binario resta vuoto. Alla luce opalina del tramonto, risalta la bellezza dell’antica locomotiva, punto di partenza e di arrivo (?) di questa storia; sulla banchina, una gabbia bianca: dentro c’è Sigismondo, il canarino di Ninetta, che dopo questa due giorni al Teatro Festival cerca casa. Perché la regista dice che tenerlo con sé chiuso in una gabbia proprio non le va. (francesca saturnino)