Si è svolta quest’anno tra Napoli, Caserta e Benevento la terza edizione di AltoFest – Festival internazionale di arti performative e interventi trasversali, sotto la direzione artistica di TeatrInGestAzione. Filo conduttore degli spettacoli – andati in scena tra il 28 giugno e il 7 luglio in “spazi privati donati dalla cittadinanza” (appartamenti, terrazzi, cortili, cantine…) – le domande Dove sei? e Cosa vedi?
Si comincia con Pasoliniana #2 a scoprire luoghi che credevi di conoscere. Lo spettacolo si tiene in un ex monastero, sito in salita San Raffaele, da poco restituito alla comunità grazie al lavoro del Comitato abitanti di Materdei. Gli attori, rievocando poesie e frammenti dei film di Pasolini, ci guidano all’interno della struttura e nel suggestivo giardino, sotto una pioggia malaugurata quanto selvaggia, quindi antiborghese e perfetta per l’occasione. Indispensabile anche il secondo elemento spontaneo della performance: gli abitanti del quartiere, che hanno preso parte allo spettacolo. Grazie a loro è stata raggiunta, per qualche momento, una vera atmosfera pasoliniana, come negli stessi film i cui attori venivano presi dalla strada. La loro partecipazione, autoironica, amatoriale e onirica sotto la pioggia, dietro una tavola imbandita, ha dato senso a Pasoliniana e l’ha unito con quello dell’AltoFest: integrare spettacolo e luogo della performance in un unico elemento, vivo e dinamico, stavolta includendo nel luogo la gente che lo abita.
Si continua a piedi fino alla salita Pedamentina San Martino, assieme a due performer appena conosciute, andate in scena il giorno prima. Un peccato, ma assieme a loro scopro l’esistenza di un ascensore su quella strada che ho percorso tante volte, salutando gli abitanti che non avevo mai visto neanche affacciati, vivendola in un altro modo. L’obiettivo del festival, “una riqualificazione umana/urbana” non viene raggiunto nella singola scena, ma in quell’unicum che è l’entrare e uscire da stanze d’appartamento, cortili, balconi, attraversando le strade della città come se fosse tutto un unico grande teatro disseminato di piccole performance di mezz’ora. La costante delle rappresentazioni è rendere partecipi l’ambiente e le persone che ne fanno parte, rendendoli corresponsabili della creazione di un qualcosa di volta in volta diverso. E allora entriamo nella cucina di un appartamento, dove Aljouder e Mansour registrano i rumori dell’ambiente, le suonerie dei cellulari degli spettatori, li uniscono alle loro voci e mixandoli e arricchendoli di delay creano una performance-concerto intitolata Party Digitale. Nello stesso appartamento, in terrazza, si svolge Crios, di Squillaciotti e Vella, che esplora la tensione del corpo e dell’anima tirati da una parte dal desiderio di restare con la persona amata e dall’altra dal bisogno di sfuggire all’ossessività dell’amore.
Assistiamo su un balcone all’ultimo piano di via Mezzocannone 19 alla performance del collettivo coreografico Anagrama: Due ballerine danno vita a Nismat, progetto di simbiosi tra architettura del corpo e quella dello spazio, una esibizione di puro movimento, imprigionato e allo stesso tempo intensificato dall’ambiente circostante: una fitta rete di fili che funge da gabbia ma anche da traiettoria per la coreografia delle due performer romane. E poi giù, passando per una piazza San Domenico Maggiore ignara di tutto, arrivando in un laboratorio artigianale che si snoda nei sottosuoli dell’omonima via. Chiara Orefice dà vita alla più intensa delle esibizioni dell’Alto Fest. In una stanza piccola e fredda, nel silenzio che può trovarsi solo nei luoghi sotterranei, esaspera i movimenti fisici provocati dalle sensazioni, creando la danza di un corpo impossessato da se stesso. Chiara spegne e riaccende la luce ma è come se la lampadina non dipendesse da lei: si sta fulminando. Allo stesso modo muove il suo corpo, controllato da esigenze che sfuggono al nostro controllo, da una elettricità che non possiamo comandare.
Un festival dissolto nella città, che dà forma agli spazi ma che ne è a sua volta deformato. L’intento di “dare luogo ai luoghi” è stato raggiunto, per quanto possa essere limitato il pubblico di esibizioni che richiedono intimità. Gli spazi non sono stati trasformati, tutto è rimasto com’era, solo che della vita ci è passata attraverso. (umberto piscopo)