Da horatiopost.com
In un articolo dell’11 luglio su Repubblica Napoli, Alessio Gemma ci ha informati di come la giunta comunale stia lavorando a una modifica del piano di rientro dal dissesto, che potrà ora essere meno cruento, con minori tagli ai servizi per centotrenta milioni in tre anni. Il fatto che i sacrifici imposti alla città dall’adesione al decreto “salva Comuni” divengano un po’ meno pesanti, che la morsa finanziaria si allenti, è una buona notizia. Bisogna capire sino a che punto.
Questo perché i minori tagli riguardano soprattutto i trasferimenti alle società partecipate, che sono ventidue, con circa ottomila dipendenti, che si aggiungono agli undicimila impiegati comunali. Il dissesto delle finanze comunali è il risultato in larga misura dei costi di mantenimento di questo sontuoso apparato, frutto di un trentennio di keynesismo clientelare nostrano, la cui esistenza è in teoria giustificata dalla produzione dei servizi essenziali e dei beni collettivi dai quali dipende la nostra qualità di vita: i trasporti pubblici, la cura dei piccoli e dei vecchietti, l’acqua da bere e l’immondizia, la sicurezza, la manutenzione urbana, e tante cose ancora. Sarebbe a dire proprio ciò di cui oggi a Napoli si sperimenta quotidianamente la carenza, l’inadeguatezza, tutti prigionieri di quello che l’ex ministro Barca chiama tecnicamente “deficit di cittadinanza”, che in parole povere è quel supplemento di fatica che occorre per vivere in questa città.
Ora la giunta starebbe lavorando a un accorpamento delle società partecipate, per controllarne meglio i costi, così come richiede l’adesione al “salva Comuni”, e a una loro parziale collocazione sul mercato, ma la sensazione è che manchi qualcosa. Perché la riforma della macchina pubblica dovrebbe partire dall’aspetto centrale, che è la definizione degli obiettivi imprescindibili di servizio, del livello dei servizi essenziali sul quale ciascuno di noi dovrebbe poter contare, per godere di una cittadinanza piena, a fronte di una contribuzione fiscale che di converso non accenna a diminuire, anzi.
Di simili orientamenti non è facile trovar traccia nelle dichiarazioni dei nostri amministratori, costretti a barcamenarsi tra i tagli e la tutela dei livelli occupazionali, senza mai affrontare il problema dei problemi, che è l’autoreferenzialità della macchina pubblica, il suo funzionare per la conservazione e l’inerzia, più che per l’erogazione, a costi e condizioni controllate, di quei beni e servizi collettivi che sono una componente essenziale della democrazia e del buon vivere, in una città che intende ancora considerarsi europea.
Perché alla fine la vera rivoluzione sarebbe questa: riscrivere, proprio in una realtà difficile come quella napoletana, un nuovo patto civile, all’insegna del realismo ma anche di una capacità di visione, ridefinendo la missione dell’apparato pubblico, riscoprendone le funzioni di servizio, con la convinzione che anche questo sia fattore di sviluppo, più che le politiche simboliche del lungomare, o la retorica già un po’ frusta dei beni comuni. (antonio di gennaro)