Dal 5 luglio è in libreria Quore Spinato, il nuovo libro di Cyop&Kaf che raccoglie i frutti di un lavoro lungo tre anni per le strade dei Quartieri Spagnoli. All’interno del libro c’è il testo Appunti per una storia orale dei Quartieri Spagnoli, curato da Luca Rossomando e Riccardo Rosa, di cui pubblichiamo un breve estratto dal capitolo 2 – Il posto dei bambini.
Qui voglio parlare della scelta di abitare la bassissima soglia del basso di Anna Stanco nel cuore dei Quartieri Spagnoli. A furia di inquadrare come bersagli le persone, di osservarle come pezzi del puzzle delle offerte, nella loro “capacità passiva” di adeguarsi, ci si dimentica delle persone. Il basso a bassa soglia è invece un andirivieni di donne, ragazzi e ragazze, uomini grandi, vecchi, immigrati d’ogni latitudine; qualche volta chiamati, più spesso di loro spontanea volontà. Solo in quel luogo e in quella relazione interlocutoria è possibile ad alcuni interrompere la loro storia di stigmatizzati che chiedono qualcosa con gesti, parole e ruoli degli stigmatizzati, unici concessi in un paradossale gioco del riconoscimento.
Nel basso passano tutti gli “uno” irriducibili a qualunque etichetta. Che succede a questi uno che stanno fuori dai target? Chi sono? Arrivano due ragazzi dominicani, accompagnati dalla mamma solerte e affettuosa. Vogliono fare sport; uno, Salvatore, il pugile e l’altro, Salvatore, l’atleta, i cento metri; prendigli il tempo, faccio rivolgendomi al pugile; misurate cento metri e col cronometro il tempo… Il giorno dopo: professore, ci mette nove secondi. Mi commuovono, abituato alle manie di grandezza dei ragazzi nativi e penso che è giusto dargli una chance, spingo su qualche assessorato, mi chiedono nome data di nascita codice fiscale e io con loro attendo ancora una risposta, tre mesi sono lunghi da aspettare.
Entrano ragazzini che chiedono: «Ma quando incomincia il doposcuola?», che sarebbe l’educativa territoriale, per fare i compiti o fare sport. Mentre stiamo parlando di questo con loro, entra una donna anziana che chiede ad Anna se può fare qualche cosa per la casa, per avere una casa in affitto. Entrano ragazzi grandi (ventenni?) alle prese con paure e problemi giudiziari, accompagnati da ragazzi più piccoli in palese e magari inconsapevole apprendistato, che chiedono cose le più disparate, lavoro, ritorno a scuola, aiuto con le assistenti sociali e mi pare che molti fanno la stessa domanda con mille parole diverse: ma posso scappare da questo sentiero? Non sanno, molti, né dove né come andare, conficcati in una vita che non so se accettano o scelgono. Mi viene in mente mio padre, 1916, ancora lucido, quando mi parla della sua vita fino agli anni Cinquanta: lui non ha mai scelto, dice, ma non si sentiva oppresso o negato nella sua libertà; per lui, semplicemente, non esistevano alternative, c’era una sola strada, senza bivi.
Entrano ragazzini più piccoli, vogliono cambiare scuola. Perché? chiedo, ormai da anni non più ingenuamente, conoscendo la risposta: voglio stare col compagno mio. Ne ho visti un sacco così: hanno bisogno della compagnia per poter replicare anche nella scuola i loro piccoli modelli di vita: chiacchierare, spettegolare le ragazze, per confermare e rinforzare tutta la loro enciclopedia valoriale, attraversando indifferenti la scuola e le prediche dei professori, i progetti per la legalità e per una maternità consapevole e rimandata, colonizzare bagni, corridoi e ultimi banchi. Ingenui, ci vengono a chiedere come un impermeabile per il loro viaggio scolastico, un paese che devono per forza attraversare per tornare in patria, tre o quattro anni dopo.
Le mamme, quante mamme, quasi mai un padre. In genere vengono a chiedere protezione per i loro figli. Sono loro, in questo caso, a chiederci di rendere i ragazzi impermeabili al quartiere e ai loro cattivi compagni; ci chiedono di metterli o toglierli in o da una scuola, in base al criterio se la scuola è buona o è malamente per i ragazzi che la frequentano. Sono, penso, tali e quali a tanti genitori borghesi che conosco, i quali inseguono la scuola buona, dove, parametro minimo, non ci stanno i fetenti: per entrambi la scuola è un paese sconosciuto, la replica della loro esperienza o immagine di trenta, quaranta anni addietro.
Poi ci stanno i cronici, famiglie che seguo o conosco da quindici anni. Entra Salvatore, ragazzo nero adottato, uno e ottanta, penso, per cento chili ugualmente distribuiti tra muscoli e pancia, accompagnato dalla mamma. Non dice una parola e non andrebbe mai a scuola, ma se deve andarci che sia almeno una dove può stare zitto con compagni e professori. Lui chiede solo che ci sia un educatore sempre al suo fianco, è l’unico bisogno educativo che c’ha. Dove lo metti là lo trovi, anzi non lo trovi, che se ne va subito da scuola. (Salvatore Pirozzi – maestro di strada, da “Un posto per gli esclusi”, Napoli Monitor n. 52, gennaio 2013)
«Io giocavo in strada, il mio gioco non era la casa, per me era inconcepibile. Ci costruivamo dei fucili fatti con gli elastici delle mutande. Facevamo il carruociolo, andavamo dal rigattiere, ci prendevamo quattro cuscinetti, facevamo la macchinina e scendevamo tutta via De Deo fino a piazza Municipio, che per noi era El Dorado, con il prato, gli alberi. C’era molto più verde. Poi andavamo nel fossato del Castello a giocare a pallone.
Il pomeriggio non c’era il mercato dei fiori e giocavamo nel fossato. Arrivavamo fino al porto, alla litoranea. Nel vicolo mi sentivo a casa mia. A parte che chiamavo tutti zii, che non erano zii, ma io ero convinto di sì. Zia Assunta ‘o vico ‘e copp’, zio Pasquale, zio Benito che vendeva il latte, tutti questi personaggi per cui scendevi da casa ma comunque eri in casa perché ognuno ti guardava, eri sempre monitorato come una grande famiglia. Le macchine non c’erano proprio. Io avevo nove galline, amavo gli animali, avevo questo gallenaro in mezzo alla strada, notte e giorno; la mattina lo aprivo, loro uscivano e scorrazzavano per tutto il vicolo tranquillamente. Poi c’era la gallina rossa di quella del vicolo di sotto, il tacchino di quello del vicolo di sopra. Stavano liberi, avevo addirittura un’oca; una pecora che comprammo io e mio padre al mercato, era piccolina e poi la crescemmo perché a Pasqua non ebbi il coraggio di farla ammazzare. Divenne un caprone. La tenevo a via De Deo, attaccata là e mangiava i residui del nostro negozio di fruttivendolo: bucce di finocchio, insalata. Avevo una decina d’anni. Poi ogni tanto la prendevo e la portavo a fare un giro, ma capiva tutto, era affezionata. Poi la vendettero e mi dissero che andava in una bella campagna a vivere bene, poi dopo ho saputo che fine ha fatto…
Io per i Quartieri camminavo anche a cavallo, perché mio padre aveva un cavallo da corsa, stava in una stalla a Gianturco e lo portava a correre ad Agnano col camioncino, faceva le gare di trotto e ha vinto pure qualcosa, avevamo coppe, medaglie. Mio padre lo dava a un fantino professionista, però lo guidava anche lui. A me aveva comprato un piccolo pony bianco, io lo cavalcavo con la coperta per i Quartieri. La coperta fungeva da sella, poi mio padre ci faceva la capezza con una corda di spago e passeggiavo tranquillamente, come se fosse un motorino. Diciamo che prima erano la norma i cavalli ai Quartieri: mia nonna aveva l’asinello, mio padre abitava a Santa Caterina da Siena, aveva un negozio di mangimi per animali, e pure loro avevano il cavallo, la sera lo scioglievamo e tornava da solo nella stalla. Alla fine del ’79 non esisteva più neanche un cavallo, infatti adesso mi prendono per pazzo, ma io ho delle foto.
«Cominciarono a uscire un sacco di auto, i primi motorini, i Benelli, marche che non esistono più. E poi quello che ho visto morire è l’aggregazione delle persone, anche nei bassi. Quella grande famiglia che c’era, che magari loro mangiavano, “prego entrate, favorite, oggi abbiamo fatto questo, lo volete ‘nu piattiello?” e te lo davano e tu davi un piattino di quello che avevi cucinato, questo fino all’80, poi dopo il terremoto non si è capito niente più, come un virus nell’aria che ha contagiato le persone, come se fossero diventati cattivi, non ti danno un pezzo di pane, non ti fanno entrare più se hanno la porta aperta, nei terranei è sparita tutta quella generazione, ci sono solo gli extra-comunitari, non che ce l’abbia con loro. Dopo il terremoto non c’erano ancora, ma molti terranei erano già stati abbandonati, poi sono diventati garage per motorini, vespe, macchine. La vita di strada non esisteva proprio più.
«Quando ci fu il colera mia madre mi voleva tenere incatenato in casa. “Non uscire, ti prendi la malattia, resta a casa e lavati le mani”. Io che ero abituato alla strada figurati se riuscivi a tenermi in casa, scappavo e scendevo. Un giorno ci radunarono tutti a piazza Municipio in certi locali, precisamente a via Verdi, c’era un sacco di gente e ci dissero: “Sono arrivati gli americani col vaccino”, e loro con una pistola, come se fossimo una mandria di buoi, tac e ci facevano il vaccino anti-colera. Grandi e piccoli, tutti. Non ho mai visto nessun ammalato in quel periodo, però ricordo che le cozze si buttavano, c’era tensione tra gli adulti. Poi passavano i camion e buttavano la creolina e mi ricordo quella puzza terribile per tutto il quartiere…
«Il periodo del terremoto l’ho vissuto con leggerezza. Ero più grandicello. Stavamo in un locale quella sera, poi venne il terremoto e scappammo noi ragazzi verso il mare. E mentre camminavamo, tutti dicevano: “I Quartieri sono caduti, sono morti tutti”, quindi avevamo un’ansia di non trovare più nessuno. Poi per fortuna i palazzi erano là, però c’era una grande tensione, le persone erano scappate di casa e trovai la mia famiglia nel negozio come se niente fosse successo. “Non ci possiamo muovere, se dobbiamo morire, moriamo tutti assieme”. Ma io che ero giovane e ribelle dissi: “Ma che state dicendo, qua cadono i palazzi e io mi sto qua?”. Quindi andai a piazza Municipio, ma per gioco, per dormire in macchina con una famiglia di amici, alcuni portarono la tenda perché c’era lo spazio verde, quindi stavamo tutti assieme. Il castello, i prati, le macchine messe una dietro l’altra come se fosse un grande accampamento, e tutti con le radio accese per sentire il telegiornale, perché poi c’erano le scosse di assestamento. Era un tam tam di notizie da una macchina all’altra. C’era chi andava a casa per prendere qualche coperta, ma subito scappavano. E poi dopo il terremoto non si è capito più niente. Parecchie famiglie si sono sfaldate, il tessuto sociale del quartiere è cambiato radicalmente». [Alberto – barman e gestore locali notturni]
«Io sono nato al Vecchio Cristallo, che mo è la galleria Toledo. Noi da quando avevamo sei o sette anni campavamo in mezzo alla strada. In verità, io un po’ di meno, perché i miei genitori non volevano. I miei facevano gli impiegati. Sono stato io la capa di cazzo. Andavo alla scuola privata a Fuorigrotta, perché loro mi volevano acconciare e invece stavo sempre là, per strada. Mi facevano tornare alle cinque? Sì, ma poi fino alle otto stavo là, il sabato pure, la domenica pure, quando organizzavamo i tornei di pallone a piazza Municipio e non tenevamo mai magliette diverse! Oh, parev’m ‘e squadre ‘e pallone overamente, e ovviamente nun amme mai accattat’ ‘na maglietta! Andavamo alla Standa e dicevamo: “Ci serve la maglia della Lazio, ce l’avete?”, pigliavamo e con tutta la calma del mondo ce n’ascev’m! Tra l’altro, all’epoca i numeri non stavano attaccati dietro la maglia, te li dovevi far cucire sopra da qualcuno, e noi ci prendevamo pure quelli e li portavamo a cucire. Poi magari capitava che il sabato mancava la maglietta del portiere, allora uno si alzava e diceva: “Guagliù, amma ji ‘a Standa, ci serve il portiere…”.
«Non è che tenevamo chissà quali esigenze, eravamo appassionati di due, tre cose: ‘o cippo ‘e Sant’Antuono, poi la mitica pietrata, la facevamo una volta alla settimana, il sabato pomeriggio. Ci stavano edifici abbandonati, scassati, che ci dividevamo. E facevamo proprio delle guerre… Il cippo era troppo bello, andavamo a fare i bordelli subito dopo l’Epifania per pigliarci il cippo più grosso. La cosa bella era che nessuno dei vicini si lamentava, eppure era bello alto il fuoco… Prima quando si faceva il cippo c’era tutta la gente del vicolo, dei vari vicoli, che stava là a guardare e dava pure un contributo per far mangiare e bere i ragazzi, c’era molta più partecipazione. I panni si facevano neri? E pazienza, venivano accettati pure i panni che si facevano neri. Questo anche perché era grandissima, più di adesso, la competizione con quelli di Santa Lucia, del Cavone. Poi, diversamente da ora, ci stavano un sacco di gruppi solo dentro ai Quartieri: c’era il cippo del Cristallo, poi a Santa Maria Ognibene, un altro a Montecalvario, poi Sant’Anna di Palazzo, poi sopra San Matteo. Quello bello si faceva a largo Barracche, storicamente è sempre stato il più bello. Insomma, il campanile con gli altri quartieri ci stava, ma ci stava pure il campanile del vicolo. Che mo è molto diminuito, mo non è niente. Noi facevamo le nottate, abbuscavamo dai genitori, le notti fuori casa a cercare i cippi, e poi quanti guai… scassav’m’ porte, purticelle, pe’ piglia ‘o legno. Io sono convinto che se ci fosse stato un po’ di stato sociale, sicuro da questo quartiere uscivano persone migliori. Ma perché io mi ricordo tutti i peggio dei peggio, quelli che poi sono diventati irrecuperabili, che comunque tu ci stavi assieme, ci giocavi a pallone, ci mangiavi la pizza da Pizzicato, ti appiccicavi pure, ma c’era affetto… Scendevamo alle sette della mattina tutti assieme per acconciare l’erba sotto al municipio, per noi era la Coppa dei campioni. E succedeva che anche ragazzi di estrazione sociale un po’ diversa, riuscivano a stare insieme.
«E la signora delle Coca Cola? Quella era un’altra ‘nziria nostra. Ci stava questa, poverina, che vendeva le Coca Cola dietro alla Standa. Prima della Galleria c’era un ingresso, l’altro stava vicino al cinema Fiorentini e poi c’era l’ingresso merci nella traversa dove sta l’Enel. Là stava questa. Noi andavamo, uno la distraeva, buttava la sedia a terra e mentre quella alluccava ci pigliavamo quello che volevamo da dentro alla bagnarola». [Mario Cuomo – impiegato]