“Torino, Always on the move”, uno slogan vincente per l’immagine di una città dinamica e volta verso il futuro. Specialmente dal 2006, anno delle Olimpiadi invernali, Torino vuole essere internazionale, attirare turisti, superare la visione di area industriale grigia e senza attrattive. Si investono soldi, si ospitano grandi manifestazioni, si restituisce al pubblico il complesso delle residenze sabaude, si rafforza, quasi raddoppiandolo, il polo museale, si afferma a livello mondiale l’arte contemporanea torinese. Grandi eventi, grandi fiere, grandi musei, grandi prospettive e Torino si trasforma, fino a essere presa a esempio e studiata in Europa e nel mondo, come modello virtuoso di come si possano risollevare le sorti di una città puntando sulla cultura e sullo sviluppo strategico.
Gli amministratori gongolano, si pavoneggiano e diffondono orgogliosi i grandi traguardi raggiunti durante trasferte didattiche in cui generosamente offrono la propria esperienza ad altri amministratori desiderosi di seguire le loro orme. Grazie alla spinta propulsiva delle Olimpiadi invernali, Torino diventa città turistica e polo culturale di riferimento e le ricadute sul territorio si contano con grandi numeri e statistiche. Da città operaia diventa una Torino pirotecnica, la cui immagine evoca piazze piene, spettacoli e fuochi d’artificio. Visto da lontano il piano strategico che negli ultimi vent’anni ha permesso il miracolo, è un modello vincente. Ma cosa succede se ci si avvicina, se si studiano i conti, si analizzano le statistiche, si guarda dietro ai riflettori? A una visione attenta, le luci si offuscano e spuntano coni d’ombra inquietanti.
In primo luogo, le Olimpiadi invernali del 2006, l’evento da tutti riconosciuto come il motore propulsivo del cambiamento, si rivelano un totale flop. Il ritorno in termini finanziari è molto deludente, si calcola che negli anni immediatamente successivi al 2006, la quota di Pil cittadino prodotta dal settore turistico si ferma al quattro per cento, un’inezia. Il buco di bilancio causato dalle Olimpiadi è una voragine dalla quale sarà difficile uscire, che contribuisce in modo sostanziale a rendere Torino la città più indebitata d’Italia. L’amministrazione dei fondi stanziati per il 2006 presenta contraddizioni ed errori, non si spiegano centinaia di migliaia di euro spesi in consulenze poco chiare, mentre quasi tutte le grandi opere realizzate versano ora in stato di completo abbandono. Il Toroc, il comitato organizzatore delle olimpiadi, ha dichiarato fallimento.
Il grande polo delle residenze sabaude, recentemente rimesso a nuovo e grande vanto torinese, con gioielli quali la Reggia di Venaria, stenta a decollare e non riesce ad autosostenersi economicamente. Mancano collegamenti e infrastrutture, e la quota di finanziamento pubblico non arriva da anni, determinando bilanci passivi. Musei tra i più visitati d’Italia come il Museo Egizio si avviano verso la privatizzazione e il settore dell’arte contemporanea, altra eccellenza torinese del passato, vive anni di crisi senza precedenti, con istituzioni come il Museo di Rivoli, fino a pochi anni fa ammirato da tutto il mondo, in stato di imbarazzante stasi e praticamente senza direzione.
Le immagini delle manifestazioni dei lavoratori del Teatro Regio, sfiancati dai costanti tagli al bilancio, rende idea dello stato di pesante recessione in cui si trova il sistema culturale torinese, senza contare le centinaia di piccole e grandi associazioni che rischiano la chiusura per la mancanza di finanziamenti.
“Trasformazione senza Metamorfosi”. Un altro slogan, un altro punto di vista, che sintetizza in poche parole la visione di Silvano Belligni e Gianfranco Ragona degli ultimi decenni torinesi. Belligni e Ragona sono entrambi docenti dell’Universita di Torino e sono particolarmente esperti nell’analisi delle politiche culturali portate avanti dalle amministrazioni torinesi susseguitesi dagli anni Ottanta in poi. “Trasformazione senza metamorfosi sintetizza l’idea che nell’ultimo ventennio è sembrato che stesse cambiando tutto a Torino, ma in realtà non è cambiato nulla”, spiega Belligni. “I grandi obiettivi del piano strategico della Torino pirotecnica non sono stati raggiunti e l’immagine che viene data della nostra città è fuorviante. Torino è un deserto, se ne sono andati via tutti da qui. Un piano strategico che punta su grandi eventi e grandi opere dovrebbe avere lo scopo di attirare in città eccellenze e grandi gruppi di investitori. Non è arrivato nessuno e i pochi che c’erano se ne stanno andando. È stata fatta dalle amministrazioni torinesi, soprattutto di sinistra, una grande opera di ‘marketing urbano’ che si è rivelata fallimentare. La politica culturale di Torino degli ultimi vent’anni ha prodotto dei risultati apprezzabili, vedi il polo museale, le residenze sabaude, il cinema, ma ha ridotto la cultura a puro intrattenimento. Le logiche che guidano l’offerta culturale di una città possono incentivare il cosiddetto loisir, ossia l’uso del tempo libero attraverso attività di svago, oppure l’empowerment e le capabilities, le abilità pratiche e intellettuali degli abitanti. Mentre un’offerta culturale improntata sul loisir punta a offrire beni e servizi usufruibili da tutti ma in modo relativamente passivo, da spettatori, un’offerta che vuole sviluppare il ‘sapere e saper fare’ si rivolge ad attività che richiedono impegno e applicazione dei partecipanti (turisti e non residenti sono tendenzialmente esclusi per i tempi medio-lunghi) e che necessitano di personale qualificato e stipendiato. È giusto identificare la cultura di una città solo ed esclusivamente con l’intrattenimento e lo svago? Che sostenibilità ha per il futuro? Torino dovrebbe costruire un’offerta culturale basata sulla sua vocazione industriale, che abbia come punti cardini la conoscenza, lo sviluppo e l’innovazione. Qui ci sono solo più eventi pirotecnici, movida e spettatori passivi. Ed è difficile che cambierà, perché una ristretta oligarchia di massimo centocinquanta persone tiene in mano la gestione delle politiche culturali e la pianificazione strategica di Torino da almeno trent’anni, e non accenna a mollare o a lasciare spazio a nessun altro. È un’oligarchia costituita da Gruppo Fiat, Fondazione San Paolo e CRT, Politecnico, Chiesa Cattolica e una serie di esponenti politici dell’ex PCI. Se non appartieni a quella cricca o non conosci nessuno all’interno, hai le porte sbarrate, vieni ignorato. Sono loro che hanno in mano il futuro della città, non hanno mai avuto opposizioni, e hanno determinato il presente grigio di oggi gestendo a loro piacimento gli enormi finanziamenti che sono arrivati in passato e i pochi spiccioli che rimangono adesso”.
Anche Gianfranco Ragona conosce bene la situazione descritta dal suo collega, perché oltre a essere docente universitario, è anche presidente di una delle più longeve associazioni culturali di Torino. L’Unione Culturale Antonicelli è stata fondata nel 1945 da un gruppo di intellettuali antifascisti, con lo scopo di proporre occasioni di ricerca, di studio e di riflessione sulla storia e la cultura italiana. «L’Unione Culturale esiste da settantacinque anni, e se fosse per persone come l’assessore alla cultura Braccialarghe, potrebbe tranquillamente chiudere. Sono anni ormai che ci hanno tagliato i finanziamenti, e ci arrangiamo come possiamo. Perché Chiamparino avrebbe dovuto continuare a finanziarci, visto che da quando esistiamo abbiamo apertamente criticato il PD e la sua amministrazione? Noi siamo sempre stati di nicchia, con un pubblico di nicchia, ma abbiamo fatto avanguardia e ricerca culturale ad altissimi livelli. Abbiamo portato per primi in Italia il Living Theatre, abbiamo fatto conoscere Carmelo Bene, John Cage e tanti altri artisti di primo piano. Adesso, per la Torino Pirotecnica, non contiamo più niente. Vorrebbero relegarci alla periferia, trasformarci in un museo. C’è un problema non più aggirabile per le istituzioni torinesi e piemontesi, un problema politico: la cultura sta morendo, le istituzioni che negli ultimi decenni sono state attive e spesso innovative sono in via di estinzione, come alcuni marsupiali della terra australe. L’idea di fondo è che ci si deve arrangiare da soli, beccando le briciole che cascano in terra, e temo che dopo almeno tre anni di crisi generale si possa dire che la classe dirigente piemontese non ha fatto nulla per contrastare tale orientamento. Torino e il Piemonte hanno tra le mani una ricchezza enorme, potenzialità che non riescono a esprimersi appunto perché va di moda affermare che la cultura deve autofinanziarsi, ciò che si riduce a dire che valgono le solite conoscenze con la società che conta, o nel migliore dei casi quelle doti di marketing che raramente si sposano con la vocazione artistica. Quando si passa il tempo a formulare progetti, richieste di finanziamento che devono sempre aver presente ciò che possa piacere all’erogatore di fondi, si scava la fossa di ogni originalità e di ogni critica». (paolo bosio)