Arrivo alla stazione di Genova alle 15.45 del 20 luglio. Sono passati dodici anni dalla morte di Carlo Giuliani, colpito da un proiettile sparato dal carabiniere Placanica durante le proteste contro il G8 nel capoluogo ligure. Il caldo umido che viene dal Tirreno brucia l’asfalto, mentre sui treni regionali le famiglie proseguono verso il mare, in direzione Genova Pegli, fino alla provincia di Savona. I turisti stranieri chiacchierano sottovoce, poi il capotreno fa sparire con un fischio la locomotiva.
A distanza di dodici anni l’atmosfera in città è un po’ diversa da quanto ci si aspetterebbe. Il ricordo di quei giorni aleggia nell’aria, ma solo per chi ne ha coscienza, mentre non modifica la routine di una città indolente, che si lascia dettare i tempi dalla lanterna e dalla lenta cottura della farinata. Alla manifestazione in ricordo di Carlo partecipano comunque in molti. Gli amici, i militanti, e quei genovesi che pensano che un giorno così non possa essere uguale agli altri. Qualcuno, tra i movimenti locali, che pure la pensa allo stesso modo, ha scritto una lunga lettera, con i toni pacati che l’occasione impone, per spiegare le ragioni della propria assenza, e i motivi per i quali non sarebbe da ritenere giusta una celebrazione così istituzionale. La lettera, di cui si è discusso parecchio, è stata ovviamente travisata, e una tv locale ha titolato a sproposito, nel suo tg: “I No Global abbandonano Giuliani”.
Per raggiungere il campo di calcio di Molassana bisogna attraversare una Genova diversa da quella dei cantautori. La via Emilia accarezza il Bisagno, secco senza una goccia d’acqua, e il centro lascia spazio alla periferia con le sue fabbriche e palazzoni. Sulla sinistra il cimitero, poi le officine del gas e la sede dell’Amt, società di trasporto pubblico urbano, all’esterno della quale uno striscione attacca i sindacati, colpevoli di non difendere i lavoratori dalla privatizzazione dell’azienda. Dopo è necessario tagliare Molassana dall’interno, scalando una piccola collina fatta di tornanti e villette.
Giuliano Giuliani è un uomo alto e robusto. Indossa un jeans e una maglietta bianca con scritto “Per non dimentiCarlo”, nome dato alle giornate organizzate in ricordo di suo figlio. Nell’ambito delle commemorazioni, oltre alla manifestazione di sabato, è previsto per la domenica un torneo di calcetto, con ventiquattro squadre provenienti da tutta Italia, che mentre ci sediamo all’ombra si affrontano nei quattro campetti ricavati dal terreno di gioco. Molti ragazzi hanno scelto di ricordare attraverso i nomi delle squadre gli avvenimenti di quei giorni, dalla Diaz alla caserma Bolzaneto. Ci sono giovani provenienti da diverse città, comprese le realtà di “calcio popolare” come la Stella Rossa di Napoli.
Nel corso degli anni il papà di Carlo ha raccolto tantissimo materiale su quello che è accaduto nei giorni del G8. Ha studiato gli atti del processo, recuperato le trascrizioni delle telefonate e ha deciso di riversare tutto in un libro: Non si archivia un omicidio. A distanza di anni, dopo averlo fatto chissà quante volte, trova ancora la forza di spiegare. Racconta, mentre la moglie gli lascia in custodia il cane, della posizione in cui il carabiniere teneva la pistola, quel pomeriggio; delle manovre dei blindati, della pietra con cui Carlo veniva colpito da un poliziotto mentre era già a terra nel sangue, eppure non ancora morto. Dei giornalisti-agenti dei servizi segreti, e delle promozioni per chi quella giornata l’ha gestita in quel modo, a cominciare da De Gennaro, all’epoca dei fatti capo della polizia e oggi presidente di Finmeccanica. Ha un volto diverso, Giuliano, più amaro rispetto a quando ieri ha scoperto con la compagna Heidi e la figlia Elena un blocco di marmo dedicato a Carlo da una cooperativa di cavatori di Massa Carrara.
Non lontano dal campo sportivo, su un muro che costeggia via Molassana prima che torni via Emilia, una scritta in bomboletta nera aggredisce i mattoni: “Le lotte non si processano: Francesco libero!”. Francesco è un anarchico di Savona, che attualmente vive a Genova, dove è agli arresti domiciliari dopo gli scontri del 15 ottobre del 2011, a Roma. È stato identificato nei giorni successivi alla manifestazione grazie alle fotografie scattate da alcuni fotografi che hanno immortalato un militante dei Cobas mentre gli strappava dal volto quello che Francesco utilizzava per coprirsi. Quel giorno, tante denunce nei confronti dei ragazzi che avevano partecipato agli scontri con la polizia partirono dopo segnalazioni dei “manifestanti pacifici”, di cui molti appartenenti ai partiti della sinistra parlamentare e alle varie sigle delle organizzazioni sindacali. Quando la storia del militante dei Cobas che manda in galera un manifestante ha cominciato a circolare, a Genova alcuni iscritti al sindacato hanno deciso di riconsegnare la propria tessera.
Francesco, detto Fra’, e per gli amici Il Pive, rischia una condanna tra i sei e i quindici anni. Devastazione e saccheggio, si chiama, il famoso reato ereditato dal codice Rocco, lo stesso che ha permesso la condanna a quindici anni per alcuni manifestanti contro il G8. Per arrivare a casa di Fra’ si attraversa e si respira l’altra città, quella del centro. La zona del porto, via San Luca con le sue focaccerie, i carrugi stretti dove le prostitute oggi sono quasi tutte straniere; piazza Matteotti, poi la scalinata del Ducale e piazza De Ferrari, con l’enorme fontana. Dopo il diluvio il caldo è di nuovo asfissiante. Francesco mi apre la porta senza maglietta, in pantaloncini. La chiacchierata dura diverse ore, assieme a Vittoria, davanti a una mezza dozzina di bicchieri di the freddo. Il Pive mi racconta quanto è stato duro il primo periodo, due mesi e mezzo con il massimo delle restrizioni e l’impossibilità di comunicare con chiunque: niente telefono, niente internet, niente cellulare. Durante quei mesi Francesco ha scritto molto. Ha dipinto stampe a tre colori con la penna a caldo, alcune arrabbiate e militanti, altre diverse, ma con dentro sempre una certa tensione inquieta. Per il primo periodo il giudice gli ha vietato persino di vedere la madre, e anche oggi, a restrizioni un po’ allentate, la possibilità di lavorare in uno stabilimento balneare a Varazze. Ora Fra’ aspetta il processo. Si è rifiutato di partecipare finora, perché gli sarebbe stato concesso di arrivare a Roma solo nel blindato della polizia, ammanettato. Sembra sapere quello a cui va incontro, ma per ora impasta dei chapati aspettando la visita dei genitori di Vittoria, per cena.
Un amico mi ha raccontato una volta perchè non era a Genova, quel giorno. La nonna, pur di tenerlo lontano dai guai, gli regalò centomila lire, che pure nel bilancio familiare avrebbero pesato. Preferì mandarlo a divertirsi altrove, lontano da quella piazza. Ho sempre pensato che quest’episodio sia una fotografia migliore di tante altre che pretendono di etichettare quella generazione. Una generazione acerba, ma abbastanza lucida da aver capito che quell’inizio del nuovo millennio era l’ultimo momento utile per far qualcosa. Ingenua e consapevole, postideologica ma non senza idee, figlia di un vuoto che era iniziato quasi vent’anni prima e che sarebbe ricominciato poco dopo, come conseguenza dello sparo che ha ucciso Carlo Giuliani. Le conseguenze di quel colpo avrebbero potuto anche essere altre. Come quando butti una secchiata d’acqua sul fuoco e rischi di crearne decine di altri più piccoli attorno. Solo che – è dura ammetterlo – chi dall’altra parte della barricata gestisce questo genere di cose, difficilmente sbaglia, e dopo quella secchiata, quel fuoco che nasceva da Seattle e passava per Porto Alegre si è spento assieme alla vita di Carlo. Se è vero, però, che le idee a volte rinascono dalle proprie ceneri, lo stesso non si può dire per la vita di un ragazzo morto a vent’anni.
È questa, forse, la sola cosa che ci resta di quel 20 luglio, assieme al fatto che al posto di Carlo avrebbe potuto esserci chiunque di noi. Di certo è la più sensata su cui vale la pena riflettere in un giorno così. (riccardo rosa)
By fausto (mangal) July 24, 2013 - 8:35 am
fu una delle giornate peggiori della storia italiana recente, ma il rischio attuale è che tutto si ripeta amplificato a causa della sordità, cecità e indifferenza della vergognosa classe politica.