Da Unacittà.it
Sempre più spesso si sente parlare di “rinascita” dell’Africa, ma oggi come ieri l’unica risorsa vera restano le materie prime, per raggiungere le quali ci vogliono infrastrutture, che la Cina usa “donare”. Un continente ancora in gran parte rurale ma in cui la Nigeria diventerà il terzo paese più popoloso del mondo e le disuguaglianze stanno esplodendo. Intervista ad Anna Maria Gentili (docente di Storia e istituzioni dell’Africa all’Università di Bologna).
Sono passati ormai cinquant’anni dall’indipendenza degli Stati africani. È possibile fare un bilancio?
Quando si parla di Africa, nel corso degli anni si sono sempre alternate delle versioni contraddittorie. Negli anni Settanta, dieci anni dopo l’indipendenza, già si parlava del fallimento degli Stati di sviluppo. Negli anni Ottanta, si rispose con il cosiddetto aggiustamento strutturale che non solo non ha funzionato, ma ha anche creato più problemi di quelli che ha risolto. Poi negli anni Novanta vi fu un momento di moderato ottimismo legato alla questione della democratizzazione, secondo il quale la democrazia era possibile solo attraverso un risanamento economico. Ma è durato poco. Subito dopo è iniziato un altro tipo di pessimismo, legato alla questione della povertà e alle difficoltà del continente africano di ridurre la forbice della disuguaglianza. Un rapporto della Banca mondiale di quel periodo riconosceva la crescita di questa diseguaglianza e sottolineava le difficoltà nel debellare questo fenomeno. Oggi il discorso sulla povertà rimane vivo quasi esclusivamente nel pensiero e nella denuncia delle Ong, mentre il pensiero mainstream parla solamente della rinascita dell’Africa, degli alti tassi di crescita economica di quasi tutti i paesi dell’Africa, anche di quelli con poche risorse e più poveri. L’ultimo numero dell’Economist riflette questa visione ormai ricorrente secondo cui l’Africa è cambiata, l’Africa sta rinascendo, sta crescendo.
Trovi che si tratti di una visione eccessivamente ottimista?
Di certo sono punti di vista che vanno contestualizzati. Per prima cosa bisogna mettere in evidenza due osservazioni. La prima è che questi tassi di crescita molto alti sono in gran parte dovuti alla rinnovata importanza delle materie prime e all’intervento della Cina, che è diventata il primo partner commerciale del continente, sopravanzando anche gli Stati Uniti, oltre che l’Europa. Si tratta del cosiddetto modello cinese, con un partito unico e autoritario e un modello economico che favorisce anche gli investimenti privati. Bisogna pensare infatti che i cinesi in Africa non sono solo i rappresentanti delle banche e delle aziende di stato, ma sono anche vari livelli di privato. Accanto alla Cina ci sono poi gli interessi dell’India e di altri paesi del Sud-est asiatico che si sono sviluppati negli anni Ottanta e Novanta, nonché una forte presenza di investimenti brasiliani, soprattutto nelle ex colonie portoghesi, Angola, Mozambico. Tutto questo movimento, per chi studia l’Africa da un po’ di tempo, suona molto familiare.
Che cosa esportava l’Africa al tempo della tratta? Una risorsa importante che erano le braccia, la forza lavoro. Che cosa esportava durante la colonizzazione e successivamente? Materie prime. E cosa esporta adesso? Uno sfruttamento molto intenso di risorse primarie. Risorse che prima erano difficilmente accessibili e sfruttabili a causa delle carenze infrastrutturali. La Cina, che è interessata a queste materie prime, investe moltissimo in infrastrutture soprattutto come dono, come metodo di penetrazione. Cosa che anche l’Europa ha fatto, ma in maniera limitata e considerando prioritario il calcolo costi e benefici.
Quindi, se è vero che i tassi di crescita aumentano, lo fanno all’interno di questo modello di sfruttamento delle risorse e di questo tipo di investimenti. Se non si riescono a creare delle sinergie produttive più sensate e se non faranno funzionare delle sinergie a livello regionale, la domanda di fondo è cosa succederà nei prossimi trenta anni, quando questo boom delle materie prime finirà. È già difficile in Europa, è facile prevedere che lo sarà molto di più in Africa.
Un secondo aspetto da considerare è che la maggior parte dell’Africa è ancora oggi Africa rurale. Vive e produce in ambito rurale. E in questo ambito, la questione che sta venendo alla luce, non nuova, ma sempre più clamorosa, è quello di come vaste regioni vengano date in affitto ad aziende straniere. Si tratta del cosiddetto fenomeno del land grabbing, ed è un fenomeno che non riguarda solo la Cina. In alcuni casi, non si tratta di investire in attività agricole, ma in produzioni che sono interessanti per noi, per esempio il biofuel, oppure, cosa persino più grave, il taglio delle foreste che, non c’è bisogno di dirlo, sta creando veri e propri disastri ecologici e umani.
A cinquant’anni dalle indipendenze, dovremmo ricordare quali erano le promesse di quella fase storica, che non erano solo legate all’emancipazione politica, ma anche allo sviluppo economico e sociale delle popolazioni africane. La domanda che dobbiamo porci è se questo sviluppo che si fonda prevalentemente su questo tipo di crescita risponda, sia pure in minima parte, a quelle promesse.
E lo fanno? Questi tassi di crescita hanno avuto, ad esempio, un impatto sulla riduzione della povertà?
Premetto che l’Africa è un continente composto di oltre cinquanta stati, con problemi simili ma con contesti e storie differenti. Anche sotto il profilo demografico, l’Africa è profondamente cambiata rispetto a cinquant’anni fa. Quando all’inizio degli anni Settanta per la prima volta ho messo piede in un paese africano, la Nigeria, vi era più o meno un terzo della popolazione che c’è oggi. Oggi parliamo di un continente in cui vive più di un miliardo di persone. Fra poco più di venti anni la Nigeria sarà il terzo paese più popolato al mondo, dopo Cina e India. È un dato fondamentale di cui tenere conto, perché parliamo di popolazioni che raddoppiano ogni venticinque anni. E con una popolazione che cresce con questo ritmo esplosivo, anche il fatto di riscontrare alti tassi di urbanizzazione, per cui molta gente si muove dalle campagne alle città, non deve trarci in inganno. Se è vero che le città, anche quelle meno importanti, si stanno popolando a gran velocità, non è affatto vero che le campagne si stanno spopolando. Con tassi di crescita di questo tipo, le campagne restano comunque molto affollate. In questo senso, la questione è che a emigrare verso le aree urbane sono soprattutto giovani e sempre più donne, provocando enormi problemi nel rapporto demografico tra città e campagna, tra centri e periferie, ed enormi differenze tra regione e regione.
Detto questo, in via generale, si può dire che in termini statistici ci sono lievi tassi di diminuzione della povertà, ma poi, se andiamo a vedere all’interno della simmetria delle varie regioni, in alcuni casi la povertà è rimasta tale o addirittura aumentata. Inoltre, quello che è aumentato notevolmente è la disuguaglianza e la percezione della disuguaglianza tra coloro che hanno accesso e che vivono in una situazione di agio e di accesso alle risorse e coloro che ne hanno meno. Si va da una nascente alta borghesia a quella che chiamavamo la piccola borghesia, che ha una serie di difficoltà soprattutto legate ai crescenti costi della vita. Oggi una casa a Maputo, in Mozambico, può costare di più che a Bologna. I costi dei beni alimentari di base, dell’energia e del trasporto urbano continuano a crescere dappertutto, alle volte scatenando scioperi e proteste. Ne sono protagonisti soprattutto giovani senza speranza di ottenere formazione o lavoro. Si consideri come esempio drammatico che Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, ha ormai dieci milioni di abitanti, di cui circa il 75% sono giovani sotto i venticinque anni. Troviamo situazioni simili in ciascun paese. (leggi l’intervista integrale)