È passato un mese da quel misero piatto di broccoli lessi e di quel pasto, per qualche meccanismo strano della memoria, mi è rimasto solo il ricordo del loro odore, dolce e invadente. Del sapore ho smarrito ogni idea. No, sto travisando la realtà, un piccolo revisionismo della mia storia egiziana. Se devo essere onesto, oltre al profumo che hanno solo i broccoli di questa terra, questo ortaggio raro porta con sé altri ricordi ben più profondi, ficcati in chissà quale gobba del mio cervello. E, come capita spesso, basta un odore e riemergono rapidi come sommozzatori che hanno esaurito l’ossigeno.
Stasera avevo un limone tra le mani, di quelli piccoli che usano qua, di quelli che se non li afferri bene tra pollice e indice possono schizzare via come pensieri. Ma non questa sera. Nessun pensiero stretto tra pollice e indice è riuscito a scappare. Ho strizzato il limone sulla sciurba, il cucchiaio si è mosso col suo smorfioso sbadiglio e un ricordo confuso si è posato sulla punta della mia lingua. Mi è sembrato normale aggiungere del limone in questo piatto caldo, eppure un mese fa questo gesto mi creò un po’ di perplessità.
Avevo quel piatto di broccoli sotto il naso, Carlo steso a terra a disperarsi per amore e un frastuono di elicotteri sopra la testa. A centro metri dal piatto piazza Tahrir in festa, a tremila chilometri voci che ripetevano le parole dei Fratelli Musulmani. In Egitto si stava compiendo un colpo di stato militare. Così dicevano. Io mi interrogavo sul senso di quel misero piatto, il limone tra le dita e lo spaesamento che mi usciva dalla bocca aperta. Carlo non so, potevano pure esserci carri armati a due passi da casa, elicotteri militari illuminati di laser verdi, milioni di persone per le strade, lui si tratteneva la testa tra le mani come se avesse paura che scappasse dal collo da un momento all’altro.
Io ero perplesso. Domandarmi se il limone ci stesse bene o no sopra quel verde odoroso mi sembrava banale. Fuori dalla latta sbiadita del piatto, dalle piccole isolette di olio che continuavano a unirsi e separarsi sulla superficie brodosa, al di là del vapore che saliva verso il soffitto, c’era un popolo impazzito di gioia, stretto alle televisioni messe per strada, stremato dalle lacrime, abbattuto dalla sensazione di essere stato tradito, furioso perché etichettato come terrorista, smarrito nel vortice dell’informazione, della propaganda, della censura.
Avrei voluto prendere le parti di qualcuno, far mia la protesta del popolo, tifare testardamente per una o l’altra parte in causa, strizzare quello scivoloso limone e ingoiare il boccone alla salute di qualche partigiano di qua. Ma chi erano i partigiani di questa rivoluzione? E la rivoluzione, avevo capito cosa era? Era una cosa paragonabile a quei grumi di olio, un’emulsione che a lungo andare, se non ci fossero stati i broccoli di mezzo, si sarebbe ricomposta in una superficie unica?
A volte è meglio starsene in silenzio, lasciare che siano le parole degli altri a consegnarti la misura dei fatti. Ma i pensieri mica si riposano, sono maleducati, lavorano sopra la voce di chi ti sta attorno, invadono anche il tuo borbottio. Quella sera però ho fatto obiezioni di coscienza, non ho preso le armi, ho smussato i pensieri, mordicchiato un gambo di broccolo e sono sceso a cercare di capire.
Ancora non torno a casa, non risalgo quelle scale, non mi interrogo su chi da quel giorno, il 3 luglio, si è occupato delle faccende di casa. Se uno scende così tante scale per farsi un’idea dei fatti, per assorbire un po’ della vita di chi sta costruendo la storia del suo paese o semplicemente per cavarci qualche cosa da una storia che non lascia il tempo di respirare, allora è difficile che riesca a rincasare. Per tornartene disinvolto a cucinare ortaggi devi fare una piccola opera di rimozione. Ci riesci se ti eserciti quotidianamente, cambiando ogni giorno pietanza, dosando le spezie, memorizzando i sapori, tastando la cottura. Oppure se ti fai una lunga scorpacciata di telenovelas, di programmi televisivi degli anni Novanta o ti sazi con le grasse propagande dei telegiornali.
In molti qua in Egitto hanno fatto questo, hanno atteso la fine del giorno per rompere il digiuno, hanno divorato i piatti che già dalle tre del pomeriggio iniziavano a chiamarli con i loro odori, hanno ascoltato le chiamate dei generali o gli appelli dei portavoce dei Fratelli. Io sono sceso di casa il 3 luglio e ancora non trovo la via del ritorno, non riesco a essere imparziale, non riesco a essere parziale, non capisco cosa sia l’oggettività, ho smarrito in un piatto di broccoli la soggettività.
Non voglio identificare un nemico, non chiedo dei colpevoli. Non desidero giudici, né giudizi. Voglio solo trovare la migliore strada per tornare a casa e vedere se l’olio nel piatto di latta si è riunito in un abbraccio egoista, lontano dalla verdura, o si è sparso in tutta la superficie a contaminare e insaporire gli inquilini di questa misera pietanza.
Quello che è successo in questo mese qua in Egitto lo avete visto nelle vostre televisioni, altro sangue ha diviso il popolo. Gli strateghi della politica o della geopolitica hanno formulato le loro teorie, le loro previsioni, i moralisti hanno condannato, gli uomini d’affari, gli speculatori, gli sfruttatori hanno rinegoziato accordi e sostituito nomi, i manifestanti hanno issato barricate e muri, i mezzi militari hanno invaso le strade e circondato i luoghi delle proteste, i Fratelli Musulmani hanno subito ripetuti massacri. In molti, dopo i numerosi morti, sono tornati nelle proprie case. Non tutti. A ridare senso a quel piatto lasciato a metà circa un mese fa c’è una nuova piazza, Sphinx, una piazza che è riuscita a districarsi dal gioco delle contrapposizioni violente tra due poteri repressivi e che continua a dire: la rivoluzione deve continuare. Io ancora non rincaso. (francesco cama)