La ghiaia sul soleggiato piazzale d’ingresso impolvera le scarpe. Mezz’ora di viaggio e il bus dalla stazione centrale mi ha portato a pochi passi dalla villa rustica di Ponticelli. Non la riconosci subito, protetta com’è da un alto muro in cemento per scoraggiare i raid vandalici avvenuti nel corso degli anni. Incursioni figlie dell’ignoranza: in pochi sanno che dietro la parete bunker vi è un pezzo di storia antica, nonostante la strada prenda il nome di via della Villa Romana.
Sembra di entrare in un cantiere blindato, ma qui l’unico scavo è quello archeologico che ha portato alla luce una fattoria di età repubblicana. L’edificio è stato sigillato da una coltre di circa due metri di flusso piroclastico collassato verso il fondo valle. Era il 24 agosto del 79 dopo Cristo. Una valanga incandescente alta trecento metri, che raggiunse i seicento gradi di temperatura e i quasi duecento chilometri orari, tramutò la tranquilla montagna in un dio di morte. La nube ardente tagliò alla stessa altezza tutte le strutture interne della villa, a testimoniarlo le colonne segate a metà, lasciando intatti, come ad Ercolano, i materiali lignei. Calpestare ciò che venti secoli fa il Vesuvio ha sepolto è eco sottile della voce di chi ha abitato questi luoghi, ancora intatta sugli affreschi del triclinium, la sala da pranzo, o del cubiculum, la stanza da letto. Dopo la zona terme, percorro il peristilio intorno al giardino dove sono state piantate le stesse essenze dell’epoca romana, per arrivare agli ambienti dove si faceva il pane, premevano le olive, pigiava l’uva, al fienile e alla cella vinaria con i dolia, i grandi recipienti, interrati. Fino ad una scaletta in discesa. Seguendola si arriva nel locale sotto il torchio del vino. Qui sono stati rinvenuti i resti di uno degli abitanti della villa.
Probabilmente tra l’inizio dell’eruzione fino a quando l’abitazione venne totalmente seppellita passarono sei o sette ore, durante le quali ci fu il tempo di fuggire. Non lo fece il fattore, però. Aveva la responsabilità del luogo, e allora raccolse alcuni oggetti in un sacchetto di cuoio e si rifugiò nel sotterraneo aspettando che il cataclisma finisse. Da solo, in un angolo, in una posizione rannicchiata, la stessa in cui il suo corpo è stato recuperato duemila anni dopo dagli archeologi, perché uscire all’aperto non era possibile, cadeva giù materiale rovente, l’aria era irrespirabile. Morto mentre stringeva a sé sei sesterzi dell’epoca di Vespasiano, monili di bronzo e un anello con il sigillo recante il nome dell’ultimo proprietario della fattoria, Caius Olius Ampliatus, discendente di uno dei veterani di Silla che, nella prima metà del I secolo avanti Cristo., vennero stanziati come coloni su tutto il territorio vesuviano. Un modo per ricompensare coloro che avevano combattuto per Roma.
Con l’anello il fattore vidimava i documenti che servivano alla conduzione dell’azienda agricola. Lo scheletro del poveretto, ora in laboratorio, racconta di un uomo di quaranta o cinquanta anni, con addosso tutti i segni della fatica. Felix il terreno da lui lavorato, ogni giorno, con costanza ed esperienza, definito dagli scrittori latini locus amoenus, luogo ameno. Funestus lo è diventato quando millenni a seguire viene scelto per dare una risposta abitativa alla grande città. Case popolari post terremoto, parto della legge 219/80 con l’ambizione di risolvere il bisogno. Edilizia pubblica al cui interno si è configurata una geografia sociale del diverso, una logica della distanza che ha voluto vedere spigoli dove invece la periferia significa etimologicamente “portare intorno” una linea curva che racchiude uno spazio, accogliendolo.
Il medico ha sbagliato la ricetta e il paziente sta peggio. Nessun piano d’intervento può ora, d’improvviso, divenire la cura adatta quando si è battezzato un posto con lo stigma della temporaneità, quando lo si è apparecchiato come campo di scontro tra due opposte tensioni: la morte esibita, la vita annunciata. La camorra fatta di ragazzini dopo la decapitazione della potente cosca dei Sarno è un sanguinoso atto di presenza, maniera per farsi visibili. In mezzo c’è il quartiere. La guardo, Ponticelli. Oltre l’orrenda muraglia che circonda gli scavi. Sembra Scampia. Ma ti parte d’istinto la ricerca del mare. Senti che da qualche parte c’è. Il paesaggio ora sfigurato da un coagulo di programmi urbanistici fallimentari, prima dell’eruzione del 79 era quello collinare che dal Vesuvio scendeva verso il mare, solcato dal fiume Sebeto, corso d’acqua che oggi scorre sotto via Argine e sfociava verso l’attuale ponte della Maddalena. E ti ritrovi a sollevare il capo dai pavimenti mosaicati, per cercare orizzonti.
Da un lato si sarebbe vista Neapolis in lontananza, dall’altro Ercolano e Pompei. Tutto intorno campagne ricoperte di vigneti. Nella fattoria di Ponticelli si produceva vino pregiato, di quell’uva che presserat madidos lacus, faceva traboccare le tinozze, a detta del poeta Marziale. Il sito archeologico l’hanno inaugurato a maggio. Ci avevano già provato anni prima, ma si dovette chiudere dopo una serie di atti vandalici nei quali furono portati via alcuni oggetti, distrutte mura e imbrattate pareti. Tre mesi estivi di chiusura, ora a settembre il quartiere aspetta di poter rivivere le sue radici, la parrocchia vicina e le associazioni del territorio fanno rete, ma il timore che cali di nuovo il buio è forte. L’horror vacui della dimenticanza potrebbe azzittire ancora una volta la storia che scivola di fianco le palazzine moderne, quelle del lotto O. Lettera dell’alfabeto, non numero, come invece viene spesso denominato il rione. Zero come quella terra di clan che hanno trasformato l’area orientale in piazza di spaccio e spazio del malaffare, come quella tabula rasa che fece il vulcano. Eppure se alzi lo sguardo, sono lì.
Balconi incassati dentro un monolite di cemento, vissuti, colorati da panni stesi sui fili a rivelare ciò che è intimo. Calzini, tovagliette, maniche all’ingiù svolazzanti al vento, concessione discreta del domestico che nessuno varca. È il perimetro dell’uomo sconosciuto, ridotto ai margini, che pervicacemente percorre i cunicoli del quotidiano. Lì sotto c’è quello che la città non vuole, non contempla: l’identità del limite che un tempo fu centro, cuore di civiltà. Perché proprio sotto l’entrata delle palazzine del lotto O, durante i lavori negli anni Ottanta per scavarne le fondamenta, venne scoperta anche un’altra villa, confinante con quella oggi in superficie. Ma questa villa venne reinterrata, interferiva con la costruzione del lotto: chi usciva dal portone di casa si sarebbe trovato direttamente nelle rovine.
Convivenza impossibile, per cui la seconda villa è stata documentata e poi ricoperta, restituita al suo tempo, al Vesuvio. Ne è rimasta soltanto una alla luce del sole, quindi, il cui scavo è ripreso nel 2007, in quella contrada Tufarelli che ha svelato le antiche origini ponticellesi. Zona di confine rivestita di strati di apparenza con i termini di programma, bonifica, intervento. Rifare la periferia, rigenerare il “fuori le mura”, rimbastire vecchie architetture: sequele di manipolazioni legate a zavorre fatte di compromessi dentro la sottile arte dello scaricabarile. Senza pensare che sarebbe bastato leggere negli interstizi, dissotterrare il sepolto. Il nascosto. Come quel calzino nel balcone incassato, come quell’impaurito fattore stretto nell’angolo buio della cantina, come quel senso d’identità smarrito tra strati di lava. (claudia procentese)
By Massimiliano Migliaccio August 30, 2013 - 6:40 pm
Gran bello scritto. Usi il potere evocativo della parola in maniera divina… attenta alle sfumature emotive, colta e raffinata nella descrizione, geniale e chiaro l’aggancio tra passato e presente. Complimenti di cuore. E’ un piacere leggerti… è un dono pensare e produrre su ciò che scrivi… grazie Claudia.
By Raf August 31, 2013 - 2:34 pm
E’ triste pensare che alcuni patrimoni archeologici, invece di venire valorizzati – ammesso e non concesso – anche per un tornaconto più “materiale”, vengano abbandonati a sé stessi. O, meglio, alle cure del tempo.
Articolo molto bello, specie nella descrizione di com’era la zona – sembra quasi incredibile – e nel ritorno al presente amaro. Per ora, si spera.
By marcella August 31, 2013 - 7:40 pm
bellissimo articolo, come insegnante di scuola primaria proprio nel quartiere Ponticelli, lo leggerò e lo farò conoscere ai miei alunni, come storia fondamentale del nostro quartiere del quale non ci si deve solo vergognare perchè menzionato dai mass media come luogo di camorra e discariche, ma con una storia notevole, una parte di quella storia che ha dato al mondo Pompei ed Ercolano e che restituisce un pò di dignità anche a noi. grazie!
By ANNA M November 13, 2013 - 11:00 am
Grazie,manco da troppi anni pero’ ricordo bene il quartiere e la sua vera anima….operaia,di sinistra e il dopo:amaro e intollerabile.Sono io adesso con la mia cultura di sensibilità verso le diversità perchè un di’ li’ ci fu chiarata l’esclusione che passava anche attraverso le direzioni didattichecuole..sono incuriosita di sapere dove si trovano le ville.