«Siamo a pochi passi dalla residenza del presidente del Kosovo». Il proprietario della pensione in cui alloggio, un vecchio ingegnere di Priština, parla a voce bassa e cadenzata. «È la nostra Casa Bianca», le labbra accennano un sorriso soddisfatto. È notte e sono sul balcone del secondo piano. La pensione si trova a Velania, quartiere collinare poco distante dal cuore senza forma della capitale: Priština si stende silenziosa e invisibile sotto di me. In questi giorni ho attraversato a piedi la distesa di cemento scaldata dal sole d’agosto e ora, mentre ascolto le parole del vecchio proprietario, inseguo le immagini catturate. «Casa Bianca». Laggiù, poco più a sud del centro, ho visto la statua di Bill Clinton: il presidente sorride, da un piedistallo alto tre metri saluta con mano pacifica e accoglie i viandanti che giungono nel Bulevar Bila Clintona. Una gigantografia del suo volto è appesa sul grattacielo di fronte e subito sotto campeggia la pubblicità di un caffè. Poi, poco più a nord, il Bulevar incrocia a sinistra Via George Bush (Rruga G. Bush, o Ulica, o Street: i nomi per “via” compaiono sui cartelli nelle tre lingue ufficiali: albanese, serbo, inglese).
Sul balcone compare un uomo alto con i capelli corti e neri, ha il viso da ragazzo. È un serbo-kosovaro e lavora con le minoranze etniche residenti a Priština. Dice di essere il nipote di Ivo Andrić, lo scrittore della Drina. «Cosa hai notato qui?», mi domanda. Descrivo i supermercati: i prodotti giungono dalla Germania, dall’Italia e dalla Croazia. «Non produciamo nulla in Kosovo – mi risponde –, l’economia di Priština si sostiene sugli uffici amministrativi delle delegazioni UN e dell’esercito statunitense, sui ministeri e sui funzionari stranieri stanziati qui dai giorni del bombardamento in Serbia». Ricordo le bandiere dell’Unione Europea e degli Stati Uniti sventolare sopra i grattacieli della via centrale.
Per le strade ho visto le bandiere albanesi sferzare l’aria. Ieri, domenica, le auto correvano per festeggiare nuovi sposalizi: gli uomini al volante lanciavano in alto il suono dei clacson e i parenti esponevano fuori dai finestrini l’aquila nera su fondo rosso. Sono uscito dalla città, verso sud, e sui lunghi rettilinei periferici ho notato ancora carovane di vetture in festa. Ho raggiunto l’enclave serba di Gračanica, piccolo agglomerato urbano sorto attorno a un monastero ortodosso del XIV secolo. Alcuni caschi blu presidiavano l’accesso al chiostro e ai luoghi di preghiera dei monaci ortodossi. Di fronte alla piccola chiesa di pietra ho assistito a un matrimonio serbo: due musicisti accompagnavano il ballo tradizionale mentre un ragazzo, al centro, teneva alta la bandiera nazionale, il tricolore panslavo con lo stemma dell’aquila bicefala. Dalla strada adiacente al monastero i caroselli dei matrimoni kosovari-albanesi giungevano distinti. Alla fine della funzione i familiari si sono riversati in strada e anche loro hanno esposto il drappo serbo fuori dal finestrino di un’auto: una domenica di clacson e identità etnica. «Nel frattempo – mi dice Andrić – abbiamo una occupazione in atto della U.S. Army. Qui, in mezzo ai Balcani, hanno costruito una delle più grandi basi militari al di fuori dei confini degli Stati Uniti».
Tim è un architetto originario del Nebraska e fin dal conflitto jugoslavo lavora per l’intelligence dell’esercito nei territori interessati dal conflitto. Anche lui si ferma sul balcone, questa notte. «Hai visto come stanno costruendo, qui? Gli edifici sono disposti a caso». Prende alcuni oggetti sul tavolo – un accendino, un pacchetto di sigarette, una bottiglietta d’acqua – e li accosta in modo caotico. «Così, un edificio qui, uno lì di traverso. Senza alcun piano». Ho visto, di giorno, una periferia dove la case sembrano spuntate come funghi, i mattoni ancora scoperti; e lontano gli scheletri dei palazzi e dei grattacieli, le gru in movimento.
Il padrone della pensione è conosciuto come “il professore”. Vuole darmi dei consigli: «Devi vedere New Born, il nuovo quartiere del centro. Lo abbiamo costruito in questi anni, dopo l’intervento NATO». A New Born c’è una piazza con un monumento dedicato all’indipendenza. I colori richiamano le bandiere degli Stati che hanno riconosciuto il Kosovo. «Sei italiano? Sì, c’è anche l’Italia. L’Italia ci ha riconosciuti». Abbassa la voce. «La Spagna ancora no».
«Un professore di economia all’Università di Priština mi ha raccontato una storia – Tim mi lancia uno sguardo attraverso gli occhiali, poi continua –, una storia per spiegare come funziona l’economia da queste parti. Un americano arriva in città e cerca un letto. Incontra il proprietario di un albergo. “Dammi una stanza”, gli dice. “Al momento non ho stanze, signore”. L’americano estrae un dollaro e lo dà al proprietario come acconto: “Se una stanza si libera, è mia”. Il proprietario intasca il dollaro e raggiunge il lattaio per pagare un debito contratto tempo fa: “Ecco la banconota che ti dovevo”. Il lattaio esce in strada e paga al fruttivendolo la spesa del giorno prima. Poi il dollaro passa dal fruttivendolo al falegname, dal falegname al panettiere: il contante gira di debito in debito. Va a finire che il panettiere doveva un dollaro al proprietario dell’albergo, l’uomo incontrato all’inizio della storia. Il nostro ripone la banconota nel taschino e torna dall’americano. “Mi spiace, nessuna stanza”. Gli restituisce il dollaro, l’americano lo accetta. Così funziona l’economia, qui». (La moneta corrente, in Kosovo, è l’euro).
Una via larga e pedonale taglia il nuovo centro di Priština. Sulle panchine ho visto gruppi di soldati in libera uscita. Domina – accanto ai ministeri e agli alberghi di lusso – l’edificio della ProCredit Bank, il gruppo finanziario con più filiali a Priština. Il quartier generale è a Francoforte, ma ProCredit si estende in diverse nazioni “in via di sviluppo”. Leggo sul sito kosovaro della compagnia: “ProCredit Holding is committed to expanding access to financial services in developing countries and transition economies by building a group of banks that are the leading providers of fair, transparent financial services for very small, small and medium-sized businesses as well as the general population in their countries of operation”. Gli altri gruppi finanziari presenti sono tedeschi. In Serbia, al contrario, si espande Banca Intesa.
Sono ricordi che si affastellano e che recupero ora, sotto il cielo notturno di Priština. «Ma esiste un desiderio di indipendenza dalle potenze straniere?», chiedo ad Andrić. «Esiste. Un movimento è ben radicato, ha anche partecipato alle elezioni. Si chiama “Vetëvendosje!”, la traduzione in inglese è “self-determination”. Pretendono una economia indipendente, sono contrari alle privatizzazioni e si oppongono al premier Thaci». Chiedo ad Andrić se ne fa parte. «Io? Io sono serbo, sono un soggetto indesiderato. Loro sono nazionalisti albanesi». Poi Andrić smette di parlare, per un attimo immobilizza i muscoli del volto e lentamente si avvicina ai miei occhi «Ma dimmi: secondo te qualcuno si è mai accorto che sono serbo? Non esiste alcuna differenza fisiognomica, siamo irriconoscibili l’uno all’altro».
Cosa è accaduto in Kosovo nei decenni scorsi? Quali odi e quali crimini si nascondono nel profondo delle memorie? Ho vissuto troppo poco nella regione per comprendere; da questa collina vedo la superficie della città. Rimango solo sul balcone della pensione di Priština. So già che lascerò la capitale per raggiungere Peje (in serbo: Peć). Là ci sarà un altro monastero, altrettanto antico. E non sarà indicato da alcun segnale e sarà protetto da un check point tenuto dagli italiani. E un kosovaro-albanese in uno spaccio di alimentari mi dirà: «Ah, l’Italia! Grande nazione, i nostri due popoli sono fratelli. Ricordi? Ci avete aiutato nel 1999. Siamo riconoscenti, e ora siamo amici. Ricordi? Il tuo paese ha bombardato la Serbia». (francesco migliaccio)