Pubblichiamo a seguire un articolo estratto dal nuovo numero de lo Squaderno (n.29 – settembre 2013), Garbage & waste / Immondizia & rifiuti.
“Gli interventi di bonifica non hanno fatto altro che aggravare la contaminazione dei terreni”, si legge nel decreto di sequestro del tribunale di Napoli del 15 maggio 2013, quello che i carabinieri hanno presentato presso le aree dell’ex Italsider e dell’ex Eternit di Bagnoli nell’ambito di un’indagine della Procura di Napoli che ipotizza il reato di disastro ambientale. Indagati ventuno ex dirigenti della società Bagnoli Futura e di vari enti locali. È una delle tante storie vecchie di anni, e che rischia di sfuggire alla comprensione, se non se ne riprendono le fila con uno sguardo dall’alto.
Un ingente quantitativo di morchie, residui della lavorazione dei metalli pesantemente inquinati da idrocarburi, è stato mescolato al terreno e sotterrato di nascosto nella zona del Parco dello Sport, una delle strutture dell’ex area industriale di Bagnoli. Un caso isolato? No di certo. L’area geografica interessata è la Campania, che dai primi anni Ottanta è la meta del più grande traffico di rifiuti industriali, tossici e nocivi del Sud Europa. In questa regione, la pluriennale “emergenza rifiuti” è servita in realtà a nascondere la verità all’opinione pubblica: aggirando controlli e soprattutto costi, le potenti lobby industriali italiane hanno protratto uno smaltimento dei rifiuti “a basso costo”.
Nei fatti, lo smaltimento è consistito in un semplice deposito sul terreno dei rifiuti più diversi: terre di spazzamento delle strade, gessi, eternit, rifiuti urbani che passano per gli impianti di tritovagliatura, solventi, polveri di abbattimento fumi, fanghi di conceria, fino ai rifiuti provenienti dalle bonifiche di altri siti inquinati. I dati più recenti parlano chiaro: i siti a provata contaminazione sono centoottantatre, le aree ancora da analizzare tremila. Questa è solo la punta dell’iceberg. Per iniziare le bonifiche servirebbero almeno cinquecentotrentuno milioni di euro, ma finora non è iniziata neanche una, di queste bonifiche.
Le confessioni dei pentiti, le inchieste della magistratura, le analisi degli esperti, concordemente ci hanno descritto una situazione drammatica: basti pensare che il 70% del territorio della provincia di Napoli ricade nella vecchia lista dei siti di interesse nazionale da bonificare. In Campania ce n’erano sei (Pianura, il litorale Domitio-Flegreo e l’Agro Aversano, Bagnoli e Napoli est, il bacino del Sarno), la norma varata dal ministro Clini li ha ridotti a due (Bagnoli e Napoli est), ma l’inquinamento resta lo stesso. La previsione di spesa già citata è di più di mezzo miliardo. Quali fondi ci sono a disposizione?
Ci sono dei fondi per le compensazioni ambientali, quelli che il governo Berlusconi annunciò pomposamente nella prima riunione del suo ultimo governo, che tenne proprio a Napoli: cinquecentoventisei milioni, poi nel tempo ridotti a duecentottanta, di cui centoquaranta a carico dello Stato e centoquaranta a carico della regione. Trattandosi di compensazioni, ogni comune ha indicato priorità diverse e solo in qualche caso i finanziamenti serviranno a liberarsi dai veleni: c’è stato chi ha preferito fare strade, chi ha investito in acquedotti. In pratica, si è agito senza una pianificazione territoriale generale, sovra-comunale, senza una vera governance del territorio. Il risultato è che al momento si possono spendere solo settantadue milioni e mezzo di euro dai fondi per le compensazioni e sessantuno milioni per i quarantanove interventi di bonifica delle vecchie discariche.
Sono queste le vere “emergenze rifiuti” in Campania: la prima è ambientale prodotta da oltre trent’anni di traffici illeciti di sostanze tossiche, nell’ordine dei milioni di tonnellate di materiali; la seconda deriva dal fatto che quei traffici illeciti godono tutt’ora di ottima salute, si sono fatti più furbi, meno vistosi, più sommersi, ma culminano nelle decine di roghi quotidiani di materiali velenosi che circondano Napoli e Caserta. Se poi non ci limitiamo a guardare i dati dei piani di bonifica, la situazione peggiora ancora.
In Campania sono oltre cinquemiladuecento i siti potenzialmente inquinati e quattrocentosessantuno quelli con un alto livello di inquinamento ufficialmente censiti dall’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale della Campania (ARPAC). Ma tutto fa pensare che questo numero non sia esatto, vista la difficoltà di quantificare con precisione il numero di siti in cui rifiuti di ogni genere vengono sversati abusivamente. Il fenomeno è a macchia di leopardo, ma è anche in continuo movimento ed evoluzione. Non appena vengono adottate misure per impedire che in un certo luogo si smaltisca illegalmente, i criminali ne scelgono uno nuovo, in modo da non inceppare il meccanismo del guadagno. In genere, i siti potenzialmente inquinati si possono dividere in quattro categorie: siti dove si è sversato ma che non sono stati posti sotto sequestro; siti sequestrati ma non sanati (dove cioè il luogo oggetto di sversamenti è stato “recintato” con un nastro di plastica bianca e rossa o con una rete in plastica arancione, alla quale è stato affisso un foglio di carta che avvisa che il sito è stato posto sotto sequestro); siti sequestrati dai quali i rifiuti speciali e i loro resti sono stati asportati; siti bonificati (dove cioè sono stati rimossi i rifiuti e i loro resti e il terreno inquinato circostante è stato sostituito con terreno non inquinato, per esempio con compost).
In alcuni casi eclatanti si è addirittura scoperto che le “bonifiche” venivano effettuate da imprese che utilizzavano compost che era stato prima miscelato con altri rifiuti tossici per la ricomposizione del terreno. Oltre al danno, la beffa: i criminali guadagnano quando sversano rifiuti tossici, guadagnano quando fanno finta di bonificare, e guadagnano ancora quando ricompongono il terreno con altri rifiuti tossici. Il ciclo si potrebbe autoalimentare all’infinito.
Gran parte della popolazione campana non ha ancora il polso della situazione. Sotto i colpi di un martellamento mediatico senza precedenti, da quasi dieci anni non si fa altro che ripetere che il problema campano è l’incapacità di creare un circolo virtuoso di gestione dei rifiuti urbani, fino ad affermare che la causa di tutto ciò sono i cittadini che “non sanno fare la raccolta differenziata”. Certe fette di popolazione, col tempo, hanno iniziato a comprendere che il vero problema è costituito dai rifiuti di natura industriale, rifiuti generati durante le fasi produttive, e non dal consumo dei prodotti. Infatti i rifiuti industriali sono più ingenti dei rifiuti urbani prodotti dalle utenze domestiche. Così, nel tempo sono sorti nei territori napoletani e casertani comitati civici e gruppi di cittadini, che si oppongono tanto all’istituzione di nuove discariche quanto ai roghi tossici, facendo pressione per ottenere una maggiore vigilanza del territorio.
Nel campo specifico delle bonifiche sta agendo invece il movimento Let’s do it! Italy, ramificazione italiana del movimento internazionale ambientalista Let’s do it!, che propone, oltre a una capillare attività di sensibilizzazione, una serie di interventi concreti. L’ultimo in ordine temporale, il 9 giugno 2013, è stato sul Vesuvio, area che in quanto Parco Nazionale dovrebbe essere tutelata e protetta. In quel caso, cinquecento volontari si sono presentati nelle pinete del Vesuvio e, protetti solo da guanti e mascherine, hanno “bonificato” a mano una vasta area, rimuovendo circa trentacinque quintali di materiali, tra cui pneumatici fuori uso, guaine bituminose, scarti tessili, e altri rifiuti speciali. L’azione ha avuto l’effetto di accendere ancora una volta i riflettori mediatici sulla questione delle bonifiche, costringendo le istituzioni locali a attivarsi per la riqualificazione ambientale, oltre a coinvolgere cittadini ed associazioni locali in una rete di azione diretta. (alessandro iacuelli)