Un rispettabile barbiere sul lastrico, “’nu schiattamuorto che ‘ncacaglia”, un professore di matematica decaduto e un attore mancato che “trova molto più onesto andare a rubare nei supermercati”, che fare teatro. Sono questi i componenti dell’eccentrico quartetto di Jucatùre, adattato dallo stesso Ianniello da Els Jugadors (Premio Ubu 2013 nella categoria “Nuovo Testo Straniero”), del drammaturgo catalano Pau Mirò, con cui l’attore/regista casertano aveva già collaborato per Chiove.
I quattro s’incontrano per giocare attorno a un tavolo, brandy di seconda mano e caffè (rigorosamente fatto in scena), in un luogo anonimo e indefinito, pieno di polvere, antichi fantasmi e vecchi cimeli, ai loro occhi “’o posto c’assumiglia ‘e cchiù a ‘na casa”. La dissonanza delle diverse voci di questo bislacco quartetto arricchisce i risvolti di una trama lineare pur nel suo rasentare l’assurdo, e che spesso passa in secondo piano, rispetto allo studio dei diversi caratteri.
I personaggi entrano ed escono dalla scena con tempi sfalsati e sconnessi tra loro – tant’è che la partita ha inizio ogni volta sempre più tardi, rispetto l’orario prefissato; ciascuno è fermo, quasi bloccato nella propria dimensione individuale, ostinatamente attaccato alla sua non vita di vizi, accomodanti abitudini e piccole o maniacali fissazioni.
Lo spettacolo comincia in medias res, subito dopo che qualcosa ha intaccato quest’apparente insana normalità, insinuando un dubbio, un “errore nei calcoli” che ha scatenato una reazione che sfiora la follia. La soluzione a tutti i problemi è altrettanto surreale: questi quattro, che in fondo non hanno nulla da perdere se non il legame, strampalato ma sincero che li unisce l’un l’altro, alla fine decidono di giocarsi il tutto per tutto: insieme.
Quella che in apparenza sembrerebbe – e in parte lo è – una commedia dai risvolti comici e grotteschi, la cui spiccata ilarità provoca le risate del pubblico per la quasi totale durata dello spettacolo, presenta, a più riprese, spunti di drammatica contemporaneità. I quattro si muovono e parlano senza sosta, in un susseguirsi di monologhi e dialoghi che s’incrociano e si accavallano quasi ininterrottamente, salvo che per i cambi di scena e alcune fatali, essenziali e lontanamente beckettiane pause, che sono come una miccia, come una lampadina che improvvisamente si accende. Hanno lo stesso effetto che il meta attore Toni Laudadio attribuisce ai suoi vuoti di memoria in scena: “Una situazione orribile ma molto affascinante, i momenti migliori dello spettacolo”. È in questi squarci inattesi, in questi fugaci attimi di silenzio tra una battuta e l’altra che si annida il vero dramma: il vuoto, l’inconsistenza di un’esistenza anonima, risicata e allucinata ma che nonostante tutto vale la pena di essere vissuta e rischiata, fino all’ultimo.
La messa in scena è efficace e asciutta – come pure il finale, forse un po’ ingenuo – scevra da inutile retorica su vizi e virtù dei quattro coprotagonisti, che sono presentati, invece, in tutta la loro imperfetta e varia umanità. I quattro attori, piacevolmente calati nella parte, sono molto affiatati tra loro, merito anche della lingua che li accomuna (un dialetto napoletano-casertano colloquiale e moderno, unica informazione fornitaci sulla collocazione spazio-temporale della storia) che fa da collante umano e diegetico e rende questi quattro jucatùre veri e propri complici, di gioco, e di vita. Che poi, arrivati a un certo punto, sono la stessa cosa. (francesca saturnino)
Jucatùre
Di: Pau Mirò
Adattamento e regia: Enrico Ianniello
Con: Renato Carpentieri, Enrico Ianniello, Tony Laudadio e Giovanni Ludeno
in scena al Teatro Nuovo fino al 6 gennaio