Dal n. 57 di Napoli Monitor
L’icona irresistibile del gigolo di Paul Schrader è ancora per molti il simbolo della prostituzione maschile. Un’immagine sicuramente parziale di un fenomeno fra i più occultati dal dibattito pubblico, perché ammettere che esista, dentro la nostra società, anche un mondo di “marchettari” oltre a quello femminile risulta evidentemente difficile. Quando, poi, clienti e sex workers hanno lo stesso sesso l’imbarazzo diventa pesante. Più facile rimuovere il problema. Eppure ci sono, si muovono dentro la città abitandone i luoghi oscuri e quelli frequentati quotidianamente da migliaia di persone, si riconoscono attraverso codici fatti di segni, sguardi, fra i quali carezzarsi il “pacco” equivale a una proposta commerciale. Un consiglio per gli acquisti. È una realtà a margine di quella, decisamente di lusso, dei gigolo per signore attempate in cerca di svago. Il sommerso di ragazzi in vendita senza gli addominali del giovane Richard Gere e sicuramente senza i suoi guadagni.
Alex ha diciotto anni, viene dalla Romania e abita con la madre e il fratello nel campo rom della Doganella. Sta in strada già da un po’. «Sto facendo questo lavoro perché mi servono i soldi. Non sono un ragazzo ricco. Non è che lo faccio perché mi piace. Mia mamma sta qua con me, il padre non lo tengo e sono il capo della famiglia. Se faccio soldi li porto al mio fratellino e mia mamma. Porto da mangiare a casa». In quanto a materiale narrativo, Dickens non potrebbe chiedere di meglio.
Il Centro Direzionale domina da trent’anni l’area orientale di Napoli. Una skyline di grattacieli firmati da architetti di grido che svettano su uno scenario desolato. Rovine industriali, capannoni dismessi, fantasmi di raffinerie. Lo scheletro di un’epoca in rovina che si riflette nei vetri dei palazzoni. Dopo l’orario di ufficio i viali si svuotano e questo pezzo di città assume sembianze sinistre, uno spazio gelido di uffici disabitati e appartamenti borghesi sopra viscere cave di parcheggi e scale mobili guaste. L’habitat di figure oscure, ai margini della vita pubblica.
I marchettari li trovi nelle pieghe nascoste di questo angolo di città incomprensibile, stazionano fra corso Meridionale e le strade che vanno verso piazza Nazionale. Via Genova, via Ferrara. Aspettano ai semafori intorno alla Stazione Centrale. Sembrano sentinelle guardiane di un mondo a parte, alle spalle di piazza Garibaldi.
La zona orientale di Napoli, nell’immaginario comune comincia alle spalle della stazione, un territorio che ha nei binari e nel variopinto suq di piazza Garibaldi un confine reale. Oltre c’è un territorio composto da quattro quartieri divisi tra la IV e la VI Municipalità. Centocinquantamila abitanti circa, suddivisi in maniera ineguale dalle geometrie della speculazione edilizia, fra i seimila di Gianturco e i quasi ottantamila di Ponticelli.
Dentro questo territorio selvaggio si agita una movida del sesso che ne affolla le strade deserte, dopo il tramonto. È un frenetico rincorrersi di macchine cariche di dopobarba e testosterone, dal corso Meridionale a via Taddeo Da Sessa, con i trans che aspettano spavaldi dentro le Smart negli anfratti di via Gianturco. Il Parcheggio Brin animato da un viavai di auto che guardano la mercanzia prima di scegliere. Il supermarket del peccato, dentro cui si sceglie per comparti: le africane a via Galileo Ferraris verso San Giovanni a Teduccio; le ragazze dell’est tra la stazione della metropolitana e il Rione Luzzatti; i rent boys al corso, prima del sottopassaggio che sale impennandosi verso la Tangenziale.
«Io resto in strada, ci sono delle automobili che passano, guardano, ti chiamano, si avvicinano e dicono che fai? Io li chiamo clienti. Mi domandano, scusa ce l’hai grande? Sai scopare bene? Sai fare bene l’amore? È incredibile! Io non ho mai fatto queste cose, però quando ho visto che mi davano i soldi l’ho fatto». In mezzo a queste figure notturne, radunate intorno al fuoco nelle notti d’inverno, si aggirano in auto mandrie di avvocati, impiegati, medici. Padri di famiglia. Cripto-checche, per dirla con Mario Mieli. Amanti del corpo maschile in cerca di emozioni a pagamento, maschi spesso incapaci di fare i conti con se stessi e le proprie inclinazioni. «Io ci sono andato, mi è capitato, perché lo devo negare?». Mario riparla senza problemi dei suoi trascorsi da cliente. Era una vita precedente, quando non riusciva ancora a vivere liberamente la propria sessualità. «Vai là, paghi, nessuno lo sa. È tutto un problema di quanto ti accetti, capito? Se sei gay e vuoi un maschio e però non lo vuoi far sapere, vai là, paghi e risolvi. Se sei omosessuale e sei consapevole, come ti devo dire, che ci vai a fare? Ci sono posti dove ci si conosce senza pagare. Là ci vai perché comunque di fondo c’è un disagio. Magari tieni una moglie, dei figli».
La maggior parte dei clienti, secondo gli operatori sociali impegnati su questo terreno, proviene da ceti agiati, in grado di spendere anche sessanta euro a sera, ma nel viavai di corso Meridionale arrivano anche clienti che propongono il vecchio baratto. Una prestazione in cambio di cibo o qualche abito, magari griffato. La cooperativa Dedalus lavora da anni su questo terreno delicato, dedicando alla prostituzione attività sociali (pagate poco, male e in maniera sempre precaria), riflessioni, convegni. Recentemente ha pubblicato, per la casa editrice Intra Moenia, il volume “I clienti del sesso”, a cura di Andrea Morniroli e Luca Oliviero, con cui si prova a tracciare un profilo dell’eterogeneo universo dei clienti. Sono gli animatori di questo mercato, qualcuno direbbe “gli utilizzatori finali”, che animano una forte domanda di sesso. In ragione di questa, si è formata una comunità di lavoratori precari del sesso che hanno come unica merce il proprio corpo e come garanzia di successo la disponibilità ad accettare il maggior numero di richieste. Alcuni riescono ad abbandonare la strada, creano una rete di clienti e lavorano per appuntamento telefonico. Guadagnano in maniera soddisfacente, di sicuro più di qualsiasi altro lavoro nero che verrebbe loro offerto, e per meno ore. Altri addirittura accettano di fare “i mantenuti”, di andare a vivere per un periodo da un cliente che compra la loro fedeltà “coniugale” e si assicura un toy boy tutto per sé. Per uno senza documenti che dorme nei treni fermi alla stazione o nei capannoni abbandonati significa cambiare vita. Almeno per un po’. Mamadou, senegalese di venticinque anni e, dicono, inaudita prestanza fisica, è addirittura riuscito a fare il mantenuto “part time”, dividendosi in periodi più o meno lunghi fra varie case di clienti affezionati. «Viaggio molto, ai clienti piace il nero, sai. Tengo clienti enamoradi. Fou, per me, capisci? E io devo mangiare che devo fare? Sto un po’ con uno, un po’ con un altro, l’anno scorso sono stato sei mesi con un uomo a Licola. Bella casa, soldi. Chi me li dava se no? Lavorare alla campagna, senti me, è peggio».
Poi ci sono quelli rimasti sulla strada, i meno agiati fra i “marchettari”, come si definiscono tutti, forse per sottolineare che lo fanno per denaro e non per piacere. Per marcare le distanze con un mondo omosessuale che in fondo disprezzano, parlando dei clienti con asprezza. Ricchioni, li chiamano, quelli che sono la loro fonte di guadagno. La video-inchiesta “Rentboys” di Luca Oliviero, fotografa questa fetta di città con uno sguardo che parte dalla strada. È l’esperienza del lavoro fatto sul marciapiede incontrando il mondo della prostituzione per attraversare gli schermi che la società erige fra “noi” e “loro”. E incontrandone le solitudini, il rammarico, le nostalgie. Sono storie di migrazione e povertà, ragazzi arrivati in cerca di lavoro convinti che l’Italia fosse ben altro e che si sono trovati col culo sul marciapiede. Dentro metropoli ostili e chiuse. Hanno tra i quindici e i ventiquattro anni. È il bisogno di denaro per vivere giorno dopo giorno che li porta a vendersi, che fornisce di che vivere senza ammazzarsi sui cantieri. Lo ha capito Ahmed, venticinque anni, arrivato dalla Tunisia inseguendo i racconti di suo cugino, che gli avevano fatto immaginare un Italia che non esiste. «Sono venuto per cambiare la mia vita, trovare lavoro e soldi. Sapevo che in Italia c’era un’altra vita ma ora tutto questo non c’è. Ho girato dappertutto a Napoli, ma non ho trovato lavoro. Allora ho conosciuto degli amici arabi, abbiamo parlato, e mi hanno detto, se non hai lavoro vai dove ci sono i ricchioni».
Il welfare della marchetta. È un lavoro a cui si arriva per caso, spinti dall’assenza di prospettive, tutti con l’idea che si tratti di un sacrificio temporaneo ma almeno di una fonte di reddito. Lo ha capito subito anche Miguel, diciassettenne bulgaro finito per strada dopo essersi scontrato con un Paese che pensava differente. «Un amico mi ha detto, vieni con me, ti porto dove c’è lavoro. In dieci minuti fai cinquanta euro, devi solo farti fare un bucchino e basta». Costantin, rumeno in servizio intorno a piazza Garibaldi, ha trovato in questo lavoro una possibilità, una volta uscito dal carcere. Si lamenta della globalizzazione della marchetta, un tempo specialità della comunità rumena. «Prima qua c’era una fila di cinquanta rumeni. Adesso c’è di tutto, italiani, marocchini, tunisini, tutti fanno le marchette per soldi. Quando non c’è niente altro da fare facciamo questo. Se vai a rubare fai un furto per venti, trenta euro, ti fai due anni di galera. Invece viene qualche cliente, ti dà lui gli stessi soldi, quanto ti vuole dare…». Dalle 20 alle 3 si possono guadagnare dagli ottanta ai novanta euro, di più o di meno, le cifre fluttuano e dipendono da tanti fattori. Fattori ambientali come la crisi economica e la contrazione del denaro circolante. Poi, una “prestazione” costa a seconda di cosa comprenda. Si va dai venti-trenta euro richiesti per sottoporsi a un rapporto orale, ai cinquanta-settanta che chiede qualcun altro, confidando forse in fattezze di particolare valore. Ma il prezzo dipende anche da cosa sei disposto a fare, che è una diretta misura della tua disperazione. Se uno vuole spendere quindici euro ci sono i tunisini, si dice nell’ambiente. È la compartimentazione dell’offerta, la “roba buona” italiana e rumena, con tanto di documenti e maggiori pretese e il discount del peccato dei clandestini, maggiormente ricattabili. Un altro fattore determinante, poi è il cliente, quanto si mostri irresistibilmente attratto, scaltro o poco esperto del mercato. Nel listino prezzi si colloca più in alto la prestazione in hotel che può costare anche cento-centocinquanta euro, così come quella a casa del cliente. Si paga in più la possibilità di vedere il ragazzo completamente nudo, guardarlo sotto la doccia, avere un rapporto più intimo. Infine quanto riesci a guadagnare, lo determina la fisiologia, e qui l’inevitabile svantaggio formato dall’architettura idraulica dell’organo sessuale maschile si fa decisiva. «I clienti vogliono che tu finisca il rapporto. È difficile riuscire a farne più di due, tre se stai bene. È difficile andare con tanti clienti come fa una prostituta». Soprattutto considerando di lavorare in assenza di desiderio, e non è poco. Inconvenienti del mestiere.
Un capitolo a parte sono quelli che in questo universo, per gran parte ancora inesplorato, occupano una posizione inferiore. Sono i “passivi”. Quelli pronti a tutto, anche per pochi soldi. Che accettano la penetrazione anale e ogni altro sfizio del cliente di turno e, secondo gli “attivi”, rovinano il mercato, abbassando il prezzo delle prestazioni e rubando clienti. Sono giovani, pronti a tutto, i più esposti ai rischi infettivi. La possibilità di aumentare i guadagni li spinge ad accettare anche gli ambitissimi rapporti non protetti. «Se sei passivo ci sono anche clienti che possono pagare trecento euro. In Italia devi lavorare due settimane come muratore per guadagnare trecento euro. Quando ho visto i soldi sono andato senza parlare». Sono il discount del sesso a pagamento, che nell’ambiente non godono di buona considerazione, perché non c’è alcuna barriera fra loro e i clienti. Dentro questa storia in cui si mescolano miserie umane di diverso genere, infatti, riescono a restare in piedi ancora i totem della società patriarcale. La distinzione fra attivi e passivi, il solco tracciato fra i ricchioni e quelli costretti all’omosessualità solo dal bisogno. Cose dette così, forse per provare a salvare almeno una parvenza o quel che rimane della coscienza di questi questi proletari del sesso a pagamento. (antonio bove)