Da: I Siciliani giovani
La politica, veramente, non conta più tanto in Italia, non almeno nel senso “occidentale” del termine: ormai è la finanza a sostituirla e lei sopravvive appena in qualche personaggio-macchietta e in qualche raffazzonato proclama. L’economia, a sua volta, è ridotta ai termini più elementari e si divide in econo-nostra, cioè la sopravvivenza quotidiana in un mondo sempre più asociale, ed econo-loro, cioé la massimizzazione del profitto pura.
Il panorama nel complesso è abbastanza medievale (gran stemmi a ogni angolo, re inutili, potere ai feudatari, folle di disperati affamati appena fuori le mura). Non c’entra niente col Novecento, e figuriamoci col Duemila. Qualcuno pensa agli anni simili dell’Ottocento, a illuminismo sconfitto e rivoluzione industriale imperversante. I nomi da libro di storia, in ogni caso, non sono gli occasionali Grilli e Renzi, né Napolitano (che pure coi suoi tre governi-del-Presidente in fila un suo contributo l’ha dato) ma gli ex tecnici e attuali re di fatto; in Italia Marchionne. Il golpe sociale di due anni fa è sato infatti l’unica vera svolta politica del Belpaese. Fiat militarizzata, statuti e leggi aboliti d’autorità, fabbriche portate via nel silenzio di tuttti. L’ultima scrivania è finita a Londra: e perché proprio lì? «Per non pagare le tasse – risponde lui candidamente – Perché io so’ io e voi non siete un c…».
Il continuum sociale, in questo stato, è rappresentato soltanto dalle più svariate aggregazioni di ex cittadini: volontariato, gruppi di quartiere, pezzi sopravvissuti di sindacato, edifici occupati, parrocchie “irregolari” e chi più ne ha più ne metta. In questa strana situazione di questo strano regno, noialtri dei Siciliani siamo fra i pochissimi a non turbarci più di tanto. Nella nostra città d’origine, infatti, tutte queste faccende si sono presentate con parecchi anni d’anticipo sul resto del reame. A Catania già negli anni Ottanta i politici, meramente parassitari, contavano ben poco: decidevano tutto quanto i Cavalieri (in linguaggio moderno “imprenditori”), a piacer loro; non c’erano giornali e tv ma un solo bollettino di corte. La plebe non aveva ovviamente alcun diritto, salvo festeggiare ogni tanto la sua squadra di calcio e i suoi santi. L’ordine pubblico consisteva in qualche arresto di ragazzini e in numerosissime uccisioni.
Di là, e dalla vicina Palermo, il modello s’estese a tutta Italia. Un mafioso palermitano, Dell’Utri, fondò il partito che governò per vent’anni (e co-governa ancora) l’Italia intera. Il “faccio quello che voglio” di un Graci o un Rendo anticipò di molti anni la strategia dei colleghi “imprenditori” Berlusconi o Marchionne.
Noi, a questo modello, non ci siamo mai rassegnati. Non per merito nostro, ma per l’esempio vissuto di un grandissimo ribelle, Giuseppe Fava. Scrivere, raccontare, far giornali; far sorridere, fare indignarsi, far pensare. Non rassegnarsi mai. Questo, senza tanti discorsi, ci ha insegnato. E questo, instintivamente, noi abbiamo cercato di portare in giro per il mondo.
Piccoli, insufficienti: forse proprio per questo non siamo rimasti soli. Piccoli ci fanno tutti, questi grandi e feroci feudatari. Nessuno di noi “piccoli” – appena comincia a riflettere – ha forze sufficienti contro di loro. Bisogna unirsi, per vincerli. Noi lo chiamiamo “fare rete”. Dappertutto. (continua a leggere – riccardo orioles)