Marco Wilms è un regista e videomaker tedesco; nel 2011 fu mandato in Egitto dall’emittente televisiva per cui lavora a raccogliere un po’ di materiale su quello che stava succedendo in piazza Tahrir. Alla presentazione dell’anteprima nazionale di Art War, tenutasi il 9 maggio al cinema Aquila di Roma (nell’ambito del “Road To Ruins Film Festival”), ci racconta che non aveva assolutamente idea di come e cosa avrebbe girato, fino a quando, un giorno, in una sala da tè del Cairo, non conobbe un ragazzo che faceva parte di un gruppo di writers. Gli chiese di poterlo seguire, ogni tanto, per capire meglio cosa facessero. Alle tre di notte di quello stesso giorno Wilms fu chiamato per accompagnare il ragazzo a disegnare di nascosto stencil e graffiti fuori legge.
Da allora, Wilms è andato e venuto dall’Egitto – di notte con i writers e di giorno in piazza, a seguire gli scontri di cui a un tratto tutti i media internazionali hanno smesso di occuparsi – fino al settembre 2013, quando l’ultimo fotogramma della pellicola riprende l’arrivo dei militari che annunciano la fine di una rivoluzione che in realtà non ha avuto modo di realizzarsi. Ne è venuto fuori un documentario che racconta la primavera araba attraverso la street art e la nascita della street art egiziana in concomitanza dei fatti di Tahrir. Le due cose sono infatti inscindibili: prima della caduta di Mubarak sui muri del Cairo c’erano solo pubblicità; quegli stessi muri sono diventati strumento di contro-propaganda dopo l’insediamento del governo paramilitare dei Fratelli musulmani e poi dell’esecutivo di Morsi.
Non semplici disegni, ma racconti per immagini di eventi che hanno caratterizzato la violenta repressione dei militari nei confronti delle migliaia di giovani manifestanti. Tutto ebbe inizio quando Ammar Abo Bakr (classe 1980) disegnò lo stencil con la faccia di un poliziotto cecchino infiltrato (identificato grazie a un video su youtube), disseminando il suo volto con la scritta “wanted” per tutta la città, permettendone l’arresto e il processo. È stata poi la volta di Mohamed Mahmoud street (nei pressi di piazza Tahrir), dove dal 19 al 24 novembre 2011 centinaia di manifestanti pacifici furono duramente attaccati dalle forze di governo: in quella stessa strada, Ammar e i suoi compagni composero un murales lunghissimo e colorato, con i volti dei martiri della rivoluzione ispirati agli antichi disegni delle case di Luxor, che raffigurano il pellegrinaggio del popolo egizio verso Gerusalemme. A quei disegni si sono aggiunti quelli di altre giovani vittime dopo l’eccidio nello stadio di Port Said, e infine nel 2012 sono cambiati. Non più corpi ma enormi volti devastati dopo l’ennesimo massacro di Abassiya.
Di Ammar è anche lo stencil di Aliaa El Mahdy, attivista e blogger egiziana, la cui foto di nudo integrale fu cliccata da circa quattro milioni di quegli stessi egiziani che permettevano al regime di “accertare” la verginità delle loro donne: quello stencil, applicato viralmente sui muri del Cairo, è diventato l’icona della resistenza contro l’estremismo religioso dei Fratelli musulmani.
Ragazzi come Ammar, Hamed, Ganzeer hanno usato muri e palazzi del Cairo e altre città per diffondere gli ideali originali dei moti di Tahrir, portando l’attenzione sugli eccidi e la repressione dei governi; disegni e stencil sono diventati documenti di verità storica, testimonianza di ciò che il resto del mondo non ha voluto raccontare, oltre che un esempio di resistenza attiva con metodi mai sperimentati prima, che hanno dato luogo a una vera e propria guerriglia urbana, artistica e non violenta, nei luoghi della rivoluzione. Quei muri, come le piazze e le strade, sono di tutti.
A fare da sottofondo a questo viaggio tra paesaggi di una bellezza sconvolgente (come un tempio Sufi in mezzo al deserto pieno di disegni coloratissimi) e violenza senza fine sono le canzoni di Ramy, musicista di Piazza Tahrir arrestato e torturato, o il punk hardcore della giovanissima Bosaina, le cui esibizioni sono spesso vietate perché ritenute “contro la morale pubblica”. Le testimonianze dei writers sulla genesi delle loro opere – spesso oltraggiate o cancellate, ma anche difese dalla popolazione – si alternano alle immagini degli scontri in presa diretta, senza filtro e da vicinissimo. Wilms, che durante la sua partecipazione agli scontri è stato sparato tre volte, racconta che nella fretta di correre ha dimenticato in diverse occasioni la telecamera accesa, ritrovandosi così con una quantità di materiale molto forte che ha poi organizzato e sistemato.
Il documentario rappresenta un lavoro unico nel suo genere, che ci racconta cosa è successo in Egitto in modo progressivo e complessivo, come forse nessun organo d’informazione è stato capace di fare in questi anni. Allo stesso tempo ci fornisce un punto di vista tutto “interno” che mette in luce gli aspetti più contraddittori e anche meno noti degli eventi che si sono susseguiti dal gennaio 2011 e che sono tutt’ora in corso nel paese.
Due mesi fa, il regista avrebbe dovuto portare la pellicola anche lì ma, alla vigilia dell’evento, la proiezione è stata cancellata per motivi di sicurezza. Il film sta girando in Europa tramite i circuiti indipendenti, come quello del “Road to Ruins Film Festival”, rassegna dal carattere militante. In Egitto, nel frattempo, gli scontri continuano, nel disinteresse della comunità internazionale. (francesca saturnino)
Art War
regia: Marco Wilms
Germania/Egitto, 2013, 89’
produzione: Marlen Burghardt, Helldenfilms, Marco Wilms
musica: Ramy Essam, Bosaina and Wetrobots, Tonbüro Berlin
prima nazionale: Road to Ruins Film Festival, festival del documentario musicale (9-11 maggio 2014). Cinema Aquila di Roma