Il rituale è comune, sebbene non ce ne si faccia ragione. I volti seri, gli applausi costanti, il nome di Ciro scandito dalla folla. Decine di striscioni affissi all’esterno dei condomini del quartiere. I parchi, si dice da queste parti. Un’altra immagine di Ciro troneggia all’ingresso di quello che è invece davvero un parco, l’unico spazio pubblico verde di Scampia. C’è un caos che non è caos, per le strade: non c’è rumore, né suono di clacson. Tutto si muove per inerzia, in silenzio, pure le centinaia di motorini che si infilano tra le auto.
È il giorno del funerale di Ciro Esposito, ventinovenne colpito quasi due mesi fa da un proiettile sparato da un ex ultras della Roma, ormai ai margini della propria curva, e militante dell’estrema destra romana. L’autopsia, ieri, ha stabilito che Ciro è stato raggiunto dal colpo alla schiena, mentre era di spalle. Sarebbe morto cinquantatre giorni dopo.
La fotografia gigante è sempre la stessa. Quella che appare sui giornali e nei rotocalchi in televisione, quella che accompagnava gli sfoghi e le parole di speranza di Antonella Leardi, la madre di Ciro. Ritrae un ragazzo biondo, magro, sorridente, col volto abbronzato. Cerozzo d’o garage, così lo conosceva la gente del quartiere. Il modo migliore per identificarlo in mezzo ad altri cento o mille Ciro. Proprio all’autolavaggio, il posto di lavoro che Ciro condivideva con il fratello e lo zio, si è concluso il corteo funebre, dopo un’ora e mezza di celebrazioni.
Sono le tre, il caldo è umido e asfissiante. La folla si riunisce in piazza molto prima dell’inizio, così tutto viene anticipato. Il rituale è comune, ma non c’è una chiesa questa volta. Si prevedeva una partecipazione così vasta, confermata dalle file nelle ultime ore per visitare la camera ardente, e allora si è pensato alla piazza. Mentre padre Romano parla al microfono, macchine in coda cercano un posto dove fermarsi, nei pressi della rotonda, cinta da un nastro bianco e azzurro annodato ai lampioni. Da lì, superando via Ghisleri, si apre alla vista, gigante, il colonnato di piazza Grandi Eventi.
Difficile dire quante persone ci siano, forse più di ventimila, ma la piazza è piena. Sotto il tendone dove è posizionata la bara ci sono i familiari, gli amici, le rappresentanze istituzionali. All’esterno la folla è divisa in due parti, lasciando spazio nel mezzo a un lungo corridoio d’asfalto attraverso cui passerà il feretro. A mantenere il varco aperto un cordone di amici di Ciro, per la maggior parte con una maglietta nera su cui c’è scritto: “Ciro: 1 eroe”. Alcuni di loro sono tifosi che gravitano attorno al gruppo Area Nord, quello con cui il giovane guardava le partite allo stadio, e che erano accanto a lui il giorno del suo assassinio, poche ore prima della finale di Coppa Italia. Ma tutto il mondo del tifo organizzato è presente, con inedita e apprezzabile sobrietà. Due grossi striscioni appesi nella piazza, con le firme delle curve, e per il resto il silenzio che è d’obbligo. Oltre ai napoletani sono arrivati da Catania, Castellammare, Torre del Greco, Pagani, Ancona. Una sciarpa e dei fiori dai tedeschi del Borussia Dortmund.
Dopo le parole del prete, come da rito evangelista (confessione a cui è vicina la famiglia di Ciro), prendono la parola alcuni tra gli amici più stretti del ragazzo, poi gli esponenti delle istituzioni, non solo politiche. C’è il presidente del Napoli, De Laurentiis, il sindaco, il presidente del Coni Malagò, Nino D’Angelo, passione musicale del giovane. Qualcuno, con un cinismo che non smetterà mai di far rabbia, ne approfitta per una passerella. Altre voci sono commosse, le parole si interrompono per il pianto, come quando Simona, la ragazza di Ciro, sale sulla piccola pedana. Lorenzo Insigne, di ritorno dal Brasile, rimane seduto in silenzio affianco alla madre del ragazzo.
D’altronde le cose da dire non sono così tante. Ci sono gli infaticabili messaggi di Antonella, affinché la morte di suo figlio non causi altra violenza; le richieste di “verità e giustizia”, slogan snocciolato come una formula vuota, che avrebbe altro valore se ogni volta in cui viene pronunciata ci si ricordasse dei tanti punti oscuri che questa vicenda porta con sé. A quasi due mesi dall’agguato, nonostante le indagini della procura, non si hanno notizie sulle modalità di irruzione dei tifosi romanisti. Non si hanno informazioni su quante fossero le pistole a sparare. Non ci sono altri indagati, almeno non ufficialmente, oltre a De Santis, che secondo decine di testimonianze – compresa l’ultima, rilasciata da Ciro pochi giorni prima di morire – non era solo. Nessuno, tra chi quel giorno doveva gestire l’ordine pubblico nella capitale, sembra essere ritenuto responsabile dell’accaduto. Una giustizia che continueranno a chiedere i familiari del ragazzo, i quali, al di là della retorica spesa attorno a loro, hanno mantenuto sempre una stupefacente lucidità. Una giustizia che di fatto è valore vuoto, risarcimento forse morale, solo un modo per rendere meno dolorosa – per quanto sia possibile – una morte del genere. Ma che forse proprio per questo sembra così lontana.
Quando alle cinque viene chiesto alla folla di lasciar procedere il feretro, davanti al tendone passano in rassegna i volti che abbiamo conosciuto in questi ultimi cinquanta giorni. Ancora la madre di Ciro, che nei ringraziamenti per chi è stato vicino alla famiglia – chi ha pagato l’albergo, chi il funerale, chi si è speso perché le persone che erano al Gemelli accanto a Ciro non avessero altri pensieri che lui – ha dato l’idea di due mesi di indicibile sofferenza; il padre, sempre silenzioso, con gli occhi seri e disincantati; lo zio, l’ex sindacalista che ha mantenuto ordine nei gesti e nei pensieri, senza perdere il controllo, senza alzare mai la voce, con parole chiare e misurate; gli amici, tantissimi e la gente del quartiere.
Passa quasi mezz’ora dall’ultimo appello di Antonella e quando il sole è ancora alto il corteo muove i primi passi lasciando la piazza. Il nome di Ciro, scandito da chi si è messo in cammino, accompagna l’automobile, come gli applausi e le lacrime. Poi il segno della croce e qualche imprecazione sussurrata, a testa bassa, dai ragazzi con la maglietta nera. Il rituale è comune, sebbene non ce ne si faccia ragione. Non si dovrebbe mai morire a trent’anni. (riccardo rosa)