I piloni degli altiforni spiccano contro il cielo, color ruggine nel blu della sera. Oltre il fiume, fra l’erba incolta, riposa una torre di raffreddamento. Nel silenzio – a volte interrotto dal tonfo di un pallone da basket – ho osservato la Dora arrivare da est, entrare nel parco, sfiorare alcune collinette e scomparire in un antro oscuro, come risucchiata dalla terra. So che riaffiorerà poco lontano, in corso Principe Oddone.
Negli anni Cinquanta la Fiat ricoprì di cemento e calcestruzzo l’alveo del fiume per espandere le Ferriere e ampliare l’area di accumulo dei rottami metallici destinati alla fusione. Le Ferriere Fiat rifornirono di acciaio gli stabilimenti di Mirafiori fin dal primo Novecento e lentamente, nel corso dei decenni, si espansero e occuparono entrambe le rive. Alla fine degli anni Settanta alcuni reparti sono stati smantellati e la produzione è via via scemata fino ai primi anni Novanta, quando gli ultimi stabilimenti attivi sono stati abbandonati. Con il tramonto del secolo la distesa post-industriale ha accolto uno dei più poderosi interventi di riqualificazione urbana.
Nonostante siano passati tre anni dall’inaugurazione del Parco Dora, alcune aree sono ancora transennate, inaccessibili al pubblico. Sulla riva meridionale, dove la profondità del terreno bonificato è scarsa, spuntano fra le erbacce alcuni alberi a basso fusto; dall’altra parte del fiume i tigli disposti in file parallele fronteggiano le costole di un antico, immenso, capannone. Sotto lo scheletro di metallo degli altiforni ci sono due porte da calcio e un canestro, alcune rampe da skateboard, qualche panchina, le aiuole. Sulle pareti di cemento rimaste in piedi campeggiano i graffiti di artisti giunti da lontano. Sono stati convocati dalle istituzioni, due anni fa, grazie al finanziamento del ministero delle politiche giovanili; hanno gettato uno sguardo sul quartiere, hanno dipinto, sono scomparsi.
A nord del parco gli edifici costruiti per accogliere i giornalisti e gli atleti durante le Olimpiadi si allungano verso l’alto, così folti e ravvicinati da sottrarsi l’aria. Dopo i Giochi l’agenzia territoriale per la casa ha convertito i palazzi in abitazioni popolari. Dall’altra parte del fiume – ho lasciato il parco alle mie spalle – si concentrano le strutture residenziali vendute alle classi più facoltose: palazzine tutte uguali, con stretti balconi verdi o blu. Alcune bandiere tricolori penzolano in attesa delle partite del mondiale, nessuna anima viva fa capolino. Qui la vita degli abitanti è tutta piegata verso il dentro di cortili accerchiati dalle cancellate e protetti dall’occhio delle telecamere: piccole piazze interne accolgono le panchine, i giochi per i bambini, le aree di svago. Può capitare di vedere un pallone alzarsi al di là dei cancelli, e ricadere giù.
Sopra le distese della dismissione industriale è cresciuto un quartiere residenziale che ha accolto, in meno di sette anni, tredicimila nuovi abitanti. Per governare e accompagnare i processi di insediamento è stato istituito il Comitato Parco Dora. Il Comitato non è un’organizzazione spontanea di cittadini, ma un braccio operativo dell’amministrazione comunale: in ogni area interessata dalla riqualificazione urbana il comune ha creato un ente deputato a gestire i nuovi insediamenti, risolvere i conflitti, garantire la sicurezza e facilitare la convivenza. I membri del direttivo non sono eletti, ma vengono nominati dall’amministrazione e dagli investitori privati. Il Comitato Parco Dora è controllato da un consigliere comunale, dai due presidenti delle circoscrizioni interessate, da un investitore privato e da un rappresentante di Novacoop.
Novacoop è la società cooperativa che riunisce le Coop piemontesi. All’inizio del Duemila Novacoop costituì la Società Sviluppo Parco Dora per edificare un centro commerciale sul territorio dove decenni fa la Michelin produceva pneumatici, proprio di fronte alle Ferriere Fiat. Il centro commerciale è un groviglio di edifici fra cui spiccano il capannone dell’Ipercoop e il cubo di vetro degli uffici amministrativi. Al centro dell’agglomerato si spalanca un vuoto: l’unica “piazza” del quartiere. Quando sono uscito dall’Ipercoop ho visto il cielo aprirsi sopra di me, poi ho abbassato lo sguardo sui muri di vetro che circondano la piazza, sui ponti e le passerelle che collegano i quattro lati e conducono ai negozi di vestiti, a una banca, una bottega di prodotti biologici, un fast food. Durante la giornata la musica sale dagli altoparlanti dell’ipermercato e rimbalza fra le mura di vetro e di luci, mentre gli ascensori vanno su e giù. I gestori, in cambio della concessione del suolo pubblico, sono tenuti a organizzare per la cittadinanza quaranta eventi culturali. Un giorno ho notato un cartellone che annunciava un concerto di Cristina D’Avena nel centro della piazza; ho immaginato una voce sepolta nell’infanzia scorrere davanti alle vetrine, insinuarsi sotto le passerelle, circolare in luoghi dove tutto si serra verso il dentro.
I privati promuovono l’offerta culturale e organizzano le forme del tempo libero. L’idea di città intorno a me ha preso la forma dagli interessi di chi ha progettato e finanziato gli insediamenti abitativi e commerciali: non ci sono scuole elementari, né biblioteche, non ci sono attività esterne al parco commerciale. Solo un Mc Donald’s dall’ingresso trasparente attende di fronte all’insegna rossa dell’Ipercoop. Ma il termine “privati” è corretto? I principali investitori sono le cooperative: la Coop per gli esercizi commerciali, San Pancrazio e Di Vittorio per i lotti abitativi; in una città storicamente governata dalla sinistra le imprese a vocazione mutualistica hanno governato la riqualificazione lungo la Dora.
Ho percorso in senso inverso la strada fra l’Ipercoop e il Parco Dora. Alla mia destra – là dove sorgevano i reparti meridionali delle Ferriere – ho notato l’ingresso dell’Environment Park, un complesso che accoglie i centri di ricerca tecnologica delle imprese disposte «ad allargare il proprio mercato con soluzioni eco-efficienti». Gli uffici e i laboratori sono accolti in prefabbricati poligonali coperti dalle piante rampicanti, contornati da giardini e aiuole. Dal fogliame spuntano, ogni tanto, gli obiettivi delle telecamere a circuito chiuso. Verso il fondo, dalla parte di corso Principe Oddone, il capannone occupato dalla Castrol attira la mia attenzione. I lavoratori che erano qui hanno appeso un cartellone sulla vetrata dei laboratori: “LA REALTÀ. Dopo soli 27 mesi, chiusura definitiva del centro entro la fine del 2014”.
Ho lasciato l’asfalto, sono entrato nel parco e ho raggiunto il ponte pedonale che unisce le due rive. A volte, quando mi appoggio al parapetto, distolgo lo sguardo dai piloni degli altiforni e mi volgo a sud. Se le giornate sono terse si vede il grattacielo Sanpaolo svettare laggiù in fondo, in cima le gru in attività sembrano fili sottili e tesi. Poco più in basso, più vicina, la scritta “Ipercoop” appiccicata sul cubo di vetro. Non è solo il gioco della prospettiva a tenere insieme i due edifici: dal ponte è possibile immaginare la linea che la Spina incide nel tessuto urbano. La Spina è la nuova arteria stradale che attraversa la città da sud a nord, uno dei più ambiziosi progetti urbanistici degli ultimi vent’anni, il sogno di cambiare il volto di Torino e di rispondere alla crisi economica che si trascina da decenni. La costruzione della nuova via è il pretesto per trasformare i territori limitrofi: i grattacieli vengono su ogni giorno di più, gli snodi ferroviari si rinnovano, le strutture residenziali fioriscono, i centri commerciali innalzano le loro insegne. Perché la Spina sia completa, ormai, manca solo l’ultimo tratto, quello che dalla Dora conduce alla cintura settentrionale.
Nel parco ho cercato di cogliere qualche forma di resistenza, una rottura nell’ordine delle cose. Mi restano appunti di storie trascorse, dati e immagini sottratti alla polvere: un operaio anarchico delle Ferriere, comandante partigiano durante la Resistenza, caduto nell’aprile del 1945; scarni resoconti degli scontri contro i nazisti lungo la Dora; notazioni archivistiche sul Grido di Spartaco, foglio clandestino stampato da queste parti durante il fascismo; confuse testimonianze di seconda o terza mano sui reparti confino aperti dalla Fiat negli anni più conflittuali del dopoguerra. Ma sono fantasmi della memoria, resti privi di vita come le torri di raffreddamento lasciate a guardia del fiume, senza attendere più nulla. Tutto si è frantumato rapidamente, gli operai che fino agli anni Ottanta lavorarono alle Ferriere sono scomparsi, o vivono altrove. Niente riesce a mettere radici: anche il comitato spontaneo di cittadini – determinato a coinvolgere gli abitanti, a prendere la parola in autonomia – conta ormai pochi membri. I legami si disfano in una terra di nessuno. Finalmente, dopo il tramonto, ho incontrato la mia amica, lei abita a pochi passi dal parco. «Non hai visto – mi ha detto – i bambini giocare a calcio prima di andare a cena? E i giovani che d’estate trascorrono le nottate qui, fra i piloni, a bere e a parlare? Perché non hai visto gli uomini che alle tre di notte corrono sulle passerelle sospese, sopra i resti di cemento?». (francesco migliaccio)