Lungo le strade provinciali che da Edinburgo portano a nord, attraversando Fife per poi perdersi tra le vallate delle Highlands, i cartelli dei sostenitori del “Si” all’indipendenza e quelli del “No” stanno dieci a uno. Da Saint Andrews a Dundee, sulle finestre e sui muretti, appesi agli alberi e sul fianco di una collina, i cartelli dello “Yes!” – con punto esclamativo – fanno capolino da casette e giardini, stampati su bei pannelli plastificati. I promotori del “No, thanks” – con quell’aggiunta di cortesia profondamente britannica – sono meno arditi: qualche cartello è piazzato sul limitare di un terreno, pochi alle finestre. Uno sulla strada a sud di Perth è stato sfondato.
Domenica un sondaggio, commissionato dal Sunday Times all’agenzia YouGov, per la prima volta da mesi ha dato il fronte del Si in vantaggio: 51% contro 49%. Poco, certo. Bisognerà poi tener conto anche del margine degli indecisi, ma rispetto ai dieci punti di distacco di un mese fa è una rimonta notevole. Secondo YouGov sono soprattutto quattro gruppi a essersi spostati verso il Si: gli elettori laburisti, poco convinti dalla direzione del partito guidato da Ed Miliband, erano favorevoli solo per il 18% un mese fa, ora lo sono al 35%; gli under quaranta, portano i consensi al Si dal 39% al 60%; i votanti della working class, che vanno dal 41 al 56%; infine le donne, dal 33% al 47%.
Difficile dire quanto i sondaggi corrispondano a un reale avanzamento di voti sul territorio. Una cosa è l’irresistibile desiderio di alzare la testa contro il governo di Westminister, un’altra è la paura dei rischi che può entrare in gioco nel segreto dell’urna. Jenny, direttrice di una scuola di lingue a Edinburgo, è andata a un’incontro sul referendum organizzato dalle piccole imprese cittadine: «Voterò sì, sperando che arrivino politiche più progressiste, che rispettino meglio la nostra identità politica. Ho solo paura per quella mancanza di autostima che ci ha sempre caratterizzato, della paura di non farcela da soli che potrebbe portare a un voto emotivo».
Un voto emotivo, “di pancia”, viene definito il Si da tutti i suoi detrattori. Molti degli accademici, professionisti e impiegati non scozzesi che vivono e lavorano a Edinburgo, e che hanno diritto di voto, bollano il referendum come una rivalsa storica fuori tempo massimo, senza alcuna base razionale. «I soldi per la ricerca al momento vengono tutti dal governo centrale, e verranno tagliati se la Scozia diventa indipendente; i giacimenti di petrolio e gas ci sono, ma non ancora per molto; la Scozia ha già tutta l’autonomia che serve», sostiene il biologo belga Michel. E nel suo dipartimento in pochi la pensano diversamente. C’è chi come Hugh, insegnante di inglese, ne fa esplicitamente una questione di ceto: la middle class nella quale si identifica è scozzese, spiega, ma allo stesso tempo britannica, e non c’è motivo di separare i due aspetti.
Eppure fino a un paio di mesi fa l’orientamento della working class sembrava altrettanto prudente, e niente affatto emotivo. Molti avevano simpatia per il Si eppure pensavano di astenersi, per paura di conseguenze economiche e politiche troppo difficili da prevedere. Cos’è cambiato, in poche settimane? Secondo l’amministratore delegato di YouGov Peter Kellner, la campagna “Yes Scotland” guidata dal primo ministro scozzese Alex Salmond e dalla sua vice Nicola Sturgeon è riuscita a incidere su tre fattori. In primo luogo ha neutralizzato la paura del rischio; ha giocato abilmente la carta sassenach, come vengono chiamati gli inglesi in scozzese e gaelico, dal momento che almeno metà degli scozzesi vorrebbe liberarsi dalla subordinazione al governo con base a Londra; infine, Salmond e compagni sembrano offrire prospettive più vitali e positive rispetto alla campagna per il No, “Better Together”, giocata sulla difensiva: tutto ruota intorno alla promessa di invertire i tagli e l’austerity di Westminister proteggendo servizi pubblici e welfare.
«La campagna del si è così positiva!», ripetono spesso i sostenitori del No sfottendo gli avversari. Vero è che hanno scelto i simboli giusti: la scritta bianco su azzurro, i colori della bandiera scozzese, con un punto esclamativo convinto, contro un mesto viola e nero. I numeri probabilmente gonfiati mirano a dimostrare la ricchezza del paese e quindi la sua possibilità di farcela da solo; uno dei ritornelli è che la Scozia già oggi sia più ricca dell’Inghilterra, e da sola possa diventare ancora più benestante. «Argomento non molto diverso da quello della Lega da voi», insinua un inglese appassionato di politica italiana.
Ci ripenso quando mi ritrovo ad assistere a uno dei tanti raduni degli Highlands Games, che celebrano la cultura tradizionale scozzese con giochi e prove di forza medievali: lanci di tronchi, sollevamento di pietroni, tiro con l’arco, giro di corsa sulla collina e ritorno. Se è vero, però, che anche i leghisti a Pontida celebrano la cultura celtica con armi e costumi, le assonanze finiscono qui. Il raduno di Blairgowrie, poco più in basso delle Highlands, non è il più famoso della zona, ma il grande prato è pieno di turisti e anche molti locali. Tra suonatori di cornamusa in competizione per il migliore assolo, giovani danzatori che aguzzano grazia e disciplina e forzuti lanciatori di tronchi, solo un paio di Yes spiccano in un contesto altrimenti apolitico. Uno di questi è sulla borsa di una bella ragazza bruna, con un costume tradizionale semplice ma portato con fierezza. Insieme al suo compagno, lunghi capelli e spada alla cintura, fanno parte del gruppo che spicca per il vestiario più elaborato. «Ian è un artigiano, produce oggetti e tessuti tradizionali scozzesi», spiega lei. «Ho già votato per il Si, per posta. Sono polacca, ma vivo qui e credo che sia un’occasione unica. Perchè rinunciare a questa opportunità?».
Angus MacVicar, nella sua autobiografia (Salt in My Porridge) del 1971, scriveva che nella Scozia insulare, in cui era cresciuto suo padre a cavallo tra Ottocento e Novecento, non si viveva meglio “che nell’Africa tribale di oggi”. Tra le case nere di fumo di allora e i piccoli centri della Scozia contemporanea, la differenza è “tra una filosofia basata sulla sopravvivenza del più forte e una incentrata sul sostegno alla dignità umana e al benessere”. In questa Scozia iper-moderna e benestante, però, dove pure la tradizione è coltivata e trasformata in marchio da vendere con il turismo, i festival e le università, l’identità non è strumento di esclusione, e include anzi molti nuovi scozzesi, lontano dalle invettive anti-immigrati che guadagnano terreno in Inghilterra.
Usciti i risultati del sondaggio, i partiti britannici si sono lanciati all’inseguimento degli elettori scozzesi, promettendo una devolution più completa di poteri al parlamento scozzese (la cosiddetta Devo-max) in caso di vittoria del No. Di fatto, nel caso dovesse vincere il Si, partiti come i liberal-democratici e i Labour perderebbero non poche poltrone in parlamento, e per le prossime elezioni dovrebbero rinunciare a qualsiasi ambizione di leadership (i conservatori, tradizionalmente poco votati in Scozia, ne uscirebbero rafforzati in termini numerici). Nella prossima settimana, il governo Cameron cercherà di giocare tutte le sue carte, come la conferma della divisione della moneta e del debito per un’eventuale Scozia indipendente. Ma è soprattutto sul piano europeo che potrebbero essere determinati gli elementi decisivi per il voto. Entro la fine del 2014 gli stati dell’Unione Europea dovrebbero riunirsi per dare mandato a una commissione di investigare le condizioni di adesione per il possibile nuovo stato. Molti catalani, anche dalla Scozia, stanno a guardare. Sebastià vive da due anni a Glasgow: «Tutta l’Europa aspetta, ma il referendum lo faremo anche noi, lo stesso, anche se Madrid non è d’accordo». Un’Europa come non mai unita nelle divisioni, e nei tentativi di affrancarsi da relitti imperiali che forse hanno fatto il loro tempo. (viola sarnelli)