Dal 10 ottobre al 19 gennaio, il museo Madre ospita Preface/Prefazione, una mostra retrospettiva sull’artista libanese Walid Raad, che dal 2000 si è affermato come una delle figure di riferimento dell’arte contemporanea del Medio Oriente. La personale, a cura di Andrea Villani e Alessandro Rabottini, ripercorre la produzione dell’artista dal 1989 a oggi.
“Della raccolta di diciottomila opere conservate nel nuovo Départment des Arts de l’Islam del Louvre, duecentonovantaquattro saranno date in prestito al Louvre di Abu Dhabi tra il 2016 e il 2046, sei subiranno le conseguenze del viaggio secondo modalità che storici, curatori e conservatori non avrebbero potuto prevenire o prevedere”. Le indicazioni di Walid Raad sono scritte nello spazio di una cartolina, sui grandi muri bianchi del Madre, come indizi nascosti. Le opere date in prestito al museo del futuro non subiranno mutamenti dovuti al clima secco: le casse termoregolate le terranno in condizioni ottimali, il viaggio sarà impeccabile. Sarà il senso delle opere a cambiare, trasfigurandole nel profondo. Un uomo, in questo futuro prossimo, si fermerà alle porte del nuovo museo degli Emirati e rifiuterà di entrare perché “non può procedere oltre”, impedendo l’accesso alla folla che è dietro di lui. Questi verrà picchiato e messo in cura perché considerato pazzo. Altri piccoli indizi, nascosti dietro le opere, rivelano un legame telepatico tra Walid Raad e gli artisti degli anni venturi, che influenzano il suo presente, facendo in modo che sulle tele vengano spruzzati colori che nel futuro non avranno più senso.
La fiction che sottende tutta la prima parte dell’esposizione si rivela poi essere qualcosa di molto più reale di quanto si possa pensare: il Louvre di Abu Dhabi è in costruzione, grazie a un accordo intergovernativo del 2007 che impegna la Francia, con un contratto trentennale da settecento milioni di euro, a prestare sul lungo termine trecento opere del patrimonio d’oltralpe, a fornire quattro mostre all’anno e ad aiutare il museo arabo nella costruzione di una propria collezione permanente. Il frutto di questa collaborazione sarà ospitato da una struttura dell’architetto Jean Nouvel di dimensioni faraoniche e dalle forme, quelle sì, davvero futuristiche. La notizia dell’accordo ha suscitato una viva opposizione nel mondo dell’arte contemporanea per il modo in cui il concetto stesso di museo sta evolvendo: da luogo di cultura a involucro per la massimizzazione dei profitti. Senza entrare nel merito del dibattito, Walid Raad prende atto del fatto che l’opera d’arte si trova in un momento di passaggio. Ma non si tratta di una semplice cesura storica: il quadro, il museo, la sala espositiva si trovano ai margini di un buco nero e si scompongono in forme e frammenti sconosciuti, pronti ad essere risucchiati da qualcosa di mai visto prima. È questo l’aspetto delle opere di Raad: quadri, pavimenti, mura e angoli della sala sono tutti scomposti in una nebulosa di frammenti fisici e concettuali che stanno per ricomporsi altrove, dove non riusciamo a vedere. Alla seconda parte dell’esposizione è dedicata un’intera ala del secondo piano, in cui sono esposte le creazioni dell’archivio The Atlas Group. Il tema stavolta si concentra sugli effetti che i grandi eventi geopolitici hanno sulla vita intima dell’individuo, nella fattispecie le guerre che si sono succedute in Libano dal 1975 al 1991.
Le foto che una donna membro del partito comunista libanese ha scattato alle bombe inesplose, eccesso di zelo che le causa il licenziamento; gli scatti delle vacanze in famiglia di un uomo che, a detta del figlio, sembrava triste mentre ritraeva i panorami del luogo di villeggiatura, e che mostrano particolari inquietanti una volta stampate, perché quando gli occhi vedono la guerra alcune cose gli restano davanti per sempre, anche in vacanza.
Decidemmo di lasciare dirgli due volte “ne siamo convinti” è il titolo del contributo fotografico di Walid Raad al progetto dell’Atlas Group: si tratta di tavole rovinate dal tempo, scattate da un Walid poco più che bambino accompagnato dalla madre, mentre da una collina di Beirut est guardavano bombardamenti più o meno lontani. Ma se nella prima parte dell’esposizione la finzione è più reale di quel che si crede, al secondo piano quel che sembrava la realtà si rivela finzione: l’Atlas Group non è altro che l’opera di Walid Raad, il quale declina in molteplici identità fittizie il paradigma della vita al tempo dei bombardamenti.
Quasi è un peccato rivelarlo, ma le storie umane elaborate da Raad avvicinano più di qualunque cronaca all’esperienza della guerra, esplorata in primissimo piano, nei suoi più intimi e profondi particolari. In ogni modo, sapere o meno della finzione, non toglie che dal 1975 al 1991 in Libano quei proiettili siano stati veramente esplosi, a milioni, e che le sbucciature sulle nocche che reggono un proiettile di grosso calibro, ci portano tutto questo così vicino che è poi difficile toglierselo dagli occhi. (umberto piscopo)