Articolo pubblicato su dinamopress.it dell’11 novembre 2014
Apriamo una mappa di Roma. Il disegno della “sopraelevata”, il nastro di cemento che, sollevandosi dalla Prenestina, attraversa in quota l’abitato di San Lorenzo, quando si sfiocca nei differenti percorsi (S. Giovanni e Tiburtina), ricorda lo scorrere di una cerniera lampo. Uno zip che, da oltre quaranta anni è, in realtà, un vero attentato alla salute e all’abitare di chi vive questa larga parte della città.
Un “mostro”, come affettuosamente (sic) è stato battezzato da chi lotta per abbatterlo. Una crudele infrastruttura per chi è condannato a vedere, quale costante infinito domestico il rincorrersi incessante di pezzi di lamiera davanti la propria stanza. La sopraelevata è il risultato dispotico di un problema non risolto dagli urbanisti. Questi, quando disegnano una strada sulla carta, la vedono solo come un elegante boulevard, fregandosene di cosa c’è intorno e di quello che queste strade provocano. Così hanno murato la vita di moltissime famiglie.
Tutto questo avviene sopra. A San Lorenzo, a via Prenestina, a viale Castrense. Lo sappiamo perché, costretti a servirci di questa strada, da sempre lottiamo per tirare giù questa traccia aerea. Ma sotto che cosa succede? E, soprattutto, che cosa si stanno preparando a far succedere lì, nelle vaste aree dello Scalo San Lorenzo lambite proprio dalla sopraelevata ?
In questi giorni degli edifici di bordo sulla via dello Scalo sono stati spalancati i portoni d’accesso. Erano chiusi da lungo tempo. La vasta area non è più in funzione. Dal 2010 i nuovi potenti proprietari dell’area, hanno infatti sfrattato l’Ufficio delle Dogane, oggi trasferito nei pressi del Centro Alimentare di Lunghezza. Ora hanno deciso che è arrivato il momento di dare il via al loro programma di “rigenerazione architettonica”: l’ennesimo centro commerciale (il quotidiano finanziario Milano Oggi parla di Esse Lunga) e le ennesime palazzine.
Però questa volta non c’è il solito “Vendesi”, ma gli scintillanti banner dell’Outdoor Urban Festival. Un avvenimento – ci dicono – per porre “interrogativi sulle future dinamiche”. Così, gli organizzatori del Festival, parlano alla città. Lo fanno chiamando a impossessarsi della vasta struttura industriale (ancora in buono stato di conservazione) quindici tra i principali esponenti mondiali della street-art. Aprono quello spazio, sconosciuto ai più, per farne un’ officina del meraviglioso urbano. Lo fanno vedere per poi distruggerlo. Aprono per chiudere. È una finestra sulla nuova urbanistica della finanza. Per produrre rendita, non basta tirar su muri, è necessario far diventare tutto merce. Anche l’arte di strada, nata per portare il conflitto all’ordine urbano, alla monotonia e alla prigione dei lunghi isolati urbani, a far diventare “occhi aperti sull’abitare” facciate e mura in cui sono racchiuse le nostre esistenze. Chi ha messo mani e occhi sulla Dogana non è il solito immobiliarista pronto a vomitare palazzine. Quello che avviene alla Dogana non è solo fare case per far rendita e inzeppare quella vasta area dell’ennesimo grandissimo centro commerciale.
Alla Dogana, a Roma, si costruisce, per la prima volta, un segmento del modo con cui si vuole sottrarci la città. Per farlo, si vogliono impossessare anche della nostra vita e del nostro modo di essere in città. Scelgono la Street–art perché arte temporanea, transitoria, effimera. Come vogliono che diventi la città. Sempre pronta a trasformarsi secondo le opportunità del mercato. Riportano all’interno, al chiuso, quello che vive nella strada, perché della strada hanno paura. Lo fanno per raccontaci della necessità che la città si trasformi a partire dalla distruzione dei luoghi, della cancellazione della memoria dell’abitare. Lo fanno, come in questo caso, piegando, astraendo da ogni contesto, esaltandolo, il solo risultato “artistico”. Staccano dalla strada quello che dalla strada prendono.
Nascondono, anche a loro stessi, che i mille e mille segni che marcano gli i attraversamenti urbani sono forme di democrazia perché sono altrettanti pareri sulla condizione urbana. Forme di democrazia diffusa non inscatolabili, per giunta “a scadenza temporale”, in uno spazio gentilmente messo a disposizione prima di farlo saltare in aria. Vogliono distruggere quei muri per “liberare” quello che c’è sotto la tangenziale senza considerare come è stato possibile arrivare a tutto questo e come s’intenda andare avanti. Ma come inizia il tutto? Cosa è stato, cosa sarà per Roma di questo spazio segnato da una strada che tocca i tetti dei palazzi? Come è nata la tangenziale? (rossella marchini e antonello sotgia – continua a leggere)