A Lampedusa è tornato calmo il mare che separa. Dietro ai ventinove morti, potrebbero essercene più di trecento. I sopravvissuti a questa ennesima strage hanno riferito che c’era un’altra imbarcazione insieme ai tre gommoni partiti sabato da Tripoli. Pare fossero in quattrocento sessanta a cercare di sfidare la tempesta e quelle onde troppo alte. Li hanno costretti a partire lo stesso, minacciandoli con le armi. Hanno inviato il segnale d’allarme e sono morti di freddo durante le operazioni di salvataggio. Non bastavano le due motovedette e due navi mercantili dirottate, si poteva, si doveva fare di più.
Ma Triton, si sa, non è una missione umanitaria. L’aveva ribadito anche Klaus Rosler, il direttore operativo, che Frontex (Agenzia europea per la gestione della cooperazione internazionale alle frontiere esterne degli stati membri dell’Unione Europea) non ha soldi e né tempo da perdere per le imbarcazioni fuori area. Triton deve gestire, monitorare, disciplinare le acque del Mediterraneo per combattere la lotta contro i traffici illegali di frontiera. Se capita, può anche salvare la vita a chi di quei traffici diventa l’oggetto. Ma con cautela. La missione possiede mezzi che consentono di imbarcare al massimo sette o otto persone oltre l’equipaggio. Condizioni un po’ limitanti per dare un contributo reale alle operazioni di soccorso “qualora si rendesse necessario”. Nella lettera inviata al dipartimento dell’Immigrazione della polizia di frontiera del Viminale, Frontex aveva ribadito più volte che gli spazi vanno “ben valutati” quando le imbarcazioni alla deriva si trovano al di là delle sue 6.900 miglia quadrate di competenza.
Le chiamano “tragedie del mare”, ma chi attraversa i confini illegali di quel tratto di mare sa bene che i dispositivi di sorveglianza e la frequenza dei pattugliamenti così come sono in grado di intercettare le rotte, sarebbero capaci anche di prevedere certe stragi. Qualora ce ne fosse la volontà.
Al di là delle facili retoriche delle ultime ore e dietro a quel preciso genere d’indignazione che rafforza la percezione che “militarizzare equivalga a salvare”, si cela la costruzione di un discorso che deresponsabilizza. Amnesty International aveva ammonito mesi fa sulle prevedibili conseguenze di questa operazione, spiegando che se l’Europa rafforza ancora di più le sue frontiere terrestri, le persone vengono spinte a percorrere rotte sempre più pericolose attraverso il Mediterraneo centrale. Nessuna novità. L’abitudine a “non intervenire abbastanza” in una delle frontiere tra le più pericolose al mondo, fa parte di un’implicita strategia di respingimento che l’ Unione Europea utilizza insieme a Frontex dal 2004.
Lo chiamano non réfoulement, ma è facile dare un nome alle cose quando chi parte non arriva in nessun luogo. E quelle rotte diventano “non luoghi” che ingoiano i corpi e i nomi di chi parte per forza o per scelta; vittima di traffici o soltanto alla ricerca di condizioni di vita migliori. E mentre l’Europa “valuta”, uomini, donne e bambini annegano in uno spazio che è a dir poco un paradosso. Il Mediterraneo viene mappato metro per metro da dispositivi di sorveglianza sofisticatissimi, come i satelliti SAR (Synthetic Aperture Radar) della NATO. Peccato che alcune vite lascino delle tracce che non interessano a nessuno.
“Far vivere e lasciar morire”: è questa la vera strategia di sicurezza. Lasciare morire di freddo, per poi piangere sui cadaveri portati a riva dalle onde. (marta menghi)