E accussì ‘ccà sule tre cose nun ce so’ rimaste: gli ipogei, ‘a memoria e ‘a magia… ben sapendo ca sule loro ce putevano salva’… ca sule loro putevano evita’ le tarme, ‘a naftalina, o peggio, di cadere seppelliti in qualche libbre, alla guisa di mummie alisandrine.
Nella sala dall’alto soffitto dell’Elicantropo c’è una strana energia. Seduti sulle piccole panche della platea, fin dai primi minuti si resta rapiti, invaghiti dalla magnifica creatura che abbiamo davanti. In uno dei comparti dell’enorme struttura quadrata che occupa gran parte della scena, una figura in mutande e canottiera, trucco accennato e capelli raccolti in una retina, guanti tagliati a metà e pelliccia sintetica, armeggia con bottiglie di vino vuote, sanpietrini e sacchi della spazzatura. Si muove da un buco all’altro, sfossicando gli anfratti bui dell’enorme ipogeo a tutt’altezza, elemento innovativo di questa messa in scena. Si lamenta d’e sturiente, d’e surice, «ca se so’ fatte sprucede», ancora più superbi e invadenti, dopo il «bum-bum-bum tremola tutto» che ha colpito la città.
Come un’acrobata, si sposta agilmente da un loculo all’altro, parlando un idioma che frastorna e ferisce; che fa ridere, anche, e tiene col fiato sospeso. Non dialetto ma lingua: ricca, melodiosa, evocativa, come l’italiano non riuscirebbe mai a essere. I movimenti di questo strano personaggio – salita e discesa, un arrampicarsi precario; scavare, nascondersi per poi manifestarsi in tutta la propria oscena e fragile umanità – altro non sono che la trasposizione fisica e metaforica di parole che non hanno eguali nella drammaturgia napoletana (e non). La narrazione è un saliscendi vorticoso di poesia e zazzarìa, affidata alla voce cruda e lirica di un femminiello, anima nobile e profana della città. Da un lato custode di una sapienza antica e sommersa, figura misteriosa, taumaturga d’e puttane, ne resta impressa l’immagine caravaggesca incastonata in un quadrato di lucine gialle, come in un’edicola votiva, col drappo della bandiera del Napoli in testa a mo’ di cornetta di suora, che distilla morte con gocce di curaro nella cisterna pubblica, perché «simme troppe, simme tropp’assaie». Dall’altro, lucido testimone dello sfacelo, dell’annichilimento cui assiste e partecipa, quando nella notte va a battere sul marciapiede della Marina «cu ‘a vocca tanta […], ricchine, cemmeraglia, braccialette… pare ‘na statua d’a Madonna ‘e l’Arco, o n’anemella ‘e dint’o Priatorio».
Questa discesa dentro la fogna, i bassi e gli ipogei, non è una semplice narrazione, ma un percorso di “es-tradizione” dalle proprie radici che passa – necessariamente – attraverso un profondo riconoscimento della propria identità. Dalle macerie del terremoto venne fuori una nuova generazione di drammaturghi (dalla formazione anomala: erano antropologi, storici e filosofi) che avevano scavato il sostrato lurido e misterioso sotto i basoli scassati della città, registrando per la prima volta l’incancrenirsi di quegli stereotipi cantati al mondo: Scannasurice è l’opera-manifesto incendiario che diede inizio al lunghissimo percorso di Enzo Moscato.
Il ventre poroso e umido del sottosuolo espelle corpi, fantasmi, preghiere, leggende, riti, filastrocche che si addensano, una dopo l’altra, in una successione immaginifica ed emotiva incontenibile: la storia del monaciello di Salita Concordia n. 37, ‘a bella ‘mbriana, i fasti di piazza Mercato in cui naufragò la rivoluzione del ’99; di contro, un presente annegato nella dimenticanza e nell’oleografia, lercio, abitato da topi ingrassati e tracotanti che ormai si sono impadroniti della città. Quei surice sono la metafora di un popolo (e di una classe dirigente) senza memoria, per la quale il terremoto del 1980 segnò la battuta d’arresto finale.
A distanza di oltre trent’anni dal debutto (nel 1982 e poi nell’84, con la regia di Annibale Ruccello) Carlo Cerciello ha ripreso Scannasurice, perché quello “sfaldamento geo-civile” oggi si sta ripetendo, pur senza movimenti tellurici, e mai come ora questo testo appare lungimirante e attuale. Già lo scorso ottobre il regista aveva diretto gli allievi del suo laboratorio in Signurì, signurì, uno dei primi testi di Moscato, autore per lui di riferimento, «il motivo per cui ho iniziato e continuo a fare teatro». Questa volta l’arduo compito d’incarnare le parole dell’autattore è stato affidato a una straordinaria Imma Villa che, sull’impianto di una regia fedele al testo (che mantiene anche il doppio finale aggiunto da Ruccello), riesce dove nessuno prima d’ora era arrivato. Agile nel corpo (che deve sostenere i continui spostamenti sulla grande struttura che fa da scenografia), con la voce tiene il ritmo frenetico e incalzante della partitura: abita le parole e i suoni della lingua con ogni parte di sé, così che diventano una melodia dolcissima e acuta.
Moscato senza Moscato in scena non è rito, ma questa leale trasposizione ci si avvicina moltissimo. Ne scaturiscono diversi spunti di riflessione: Cerciello e Imma Villa non sono i primi a confrontarsi con la scrittura di Moscato, eppure questo lavoro, a differenza di altri, lascia il segno, e lo tramanda persino. La base è una profonda condivisione, sposare degli intenti che vengono prima del testo o della recitazione, che partono da lontano, a cominciare dal modo in cui si concepisce il teatro. Moscato, Ruccello, Neiwiller cominciarono nei sottoscala, nel buio delle saittelle. Circa vent’anni fa, Carlo Cerciello, Imma Villa e Pierpaolo Rosselli rilevarono l’ex falegnameria nell’ex Pinacoteca dei Gerolomini e da lì nacque l’Elicantropo, oggi avamposto di una resistenza culturale (e politica) che può e deve passare anche attraverso il teatro. Quando le luci si riaccendono l’energia esplode in un applauso lunghissimo e ininterrotto. C’è una signora molto anziana che durante lo spettacolo ha ripetuto sulle labbra gran parte dei detti popolari formulati in scena; ora sorride, applaude e piange.
Mentre il teatro pubblico è sempre più televisivo, accompagnato da tristi balletti di nomine e poltrone, negli spazi off (che non prendono un euro dalle amministrazioni e resistono con le loro forze) si va rifugiando il teatro vero, civile, quello di cui c’è più bisogno. (francesca saturnino)
Scannasurice
di: Enzo Moscato
regia: Carlo Cerciello
con: Imma Villa
scene: Roberto Crea
suono: Ubert Westkemper
musiche originali: Paolo Coletta
costumi: Daniela Ciancio
disegno luci: Cesare Accetta
aiuto regia: Aniello Mallardo
assistenti alla regia: Tonia Persico e Serena Mazzei
produzione: Teatro Elicantropo Anonima Romanzi e Prospet
in scena: dal 22 gennaio al 22 febbraio al Teatro Elicantropo di Napoli