Mentre i telegiornali italiani ci davano la notizia di un tragico incidente stradale che ha coinvolto un autobus di pellegrini evangelici in Brasile, nei giorni appena trascorsi il gigante sudamericano si è trovato a vivere una forte radicalizzazione dello scontro politico. Con l’operazione Lava Jato (lavaggio) il Ministero Pubblico Federale e la Polizia Federale hanno scoperto un diffuso sistema di corruzione che attraverso la Petrobras, il colosso statale degli idrocarburi, oliava gli ingranaggi della macchina politica brasiliana e le tasche di vari esponenti dei partiti, con il PT (Partido dos Trabalhadores) di Dilma e Lula in testa.
Via via che l’operazione faceva emergere l’entità dello scandalo, la destra nazionale agglutinata attorno al PSDB, il partito sconfitto alle recenti elezioni (e certamente non campione di onestà), scatenava una campagna di indignazione senza precedenti. L’apice si è raggiunto in questi giorni quando, con una lauta visibilità mediatica, è stata organizzata una grande manifestazione per le vie di San Paolo (e di altre città) il 15 marzo. Oltre al consueto grido di Fora Dilma per richiedere le dimissioni del governo, la folla si è appellata anche alla procedura di impeachment e altri settori ben più estremi addirittura hanno richiesto l’intervento risolutore dell’esercito.
Del resto, nonostante la propaganda che insisteva sul carattere pacifico della manifestazione, la giornata del 15 marzo ha espresso in piazza un odio profondo accumulato da tempo, un sentimento ultrareazionario che inneggia al ripristino dell’ordine attraverso un intervento autoritario. Bastava osservare le immagini, ascoltare gli slogan e leggere le rivendicazioni su striscioni e cartelloni portati in strada, per rendersi conto che diversi gruppi di manifestanti reclamavano apertamente l’ipotesi di un golpe militare.
Il Brasile è quindi alle prese con un intensificarsi dello scontro e il governo deve fronteggiare un chiaro arretramento della sua base sociale. A nulla gli è valsa la pur numerosa dimostrazione di sostegno da parte di sindacati e organizzazioni sociali che hanno sfilato per le stesse strade di San Paolo appena due giorni prima, il 13 marzo. Il governo Dilma e il PT si trovano in una situazione di estrema fragilità e pare non abbiano molti argomenti di difesa, aldilà di una vuota retorica sulla bellezza della democrazia contro il golpismo o l’arroccarsi dietro l’esito elettorale che li ha visti imporsi di stretta misura sul PSDB.
Eppure il 15 marzo in piazza non c’era solo chi sosteneva la dittatura. Sarebbe ingenuo etichettare quella manifestazione soltanto come espressione dell’atavico sentimento golpista della élite bianca conservatrice, anche perché l’élite semplicemente non ha tutta quella consistenza numerica. Oltre alla sacrosanta indignazione nei confronti della corruzione, le ragioni di una così ampia adesione popolare vanno forse ricercate più a fondo. Pare che il modello di governo del PT abbia raggiunto il suo culmine. Qualche briciola redistributiva per le fasce sociali più deboli ancora rimane, ma il consistente ciclo progressista sembra essersi esaurito. La diminuzione della crescita iniziata nel 2011 mina la soddisfazione di quelli che nel secondo mandato di Lula avevano almeno visto aumentare la propria capacità di spesa. Inoltre ora, per uscire da una fase di ristagno economico e di forte inflazione, il governo ha approntato misure di austerità che erodono i diritti dei lavoratori, tagliano i servizi pubblici, diminuiscono la politica dei crediti e aumentano i tassi d’interesse. Politiche che tendono a peggiorare significativamente la situazione dei lavoratori e della popolazione più povera del paese.
Ma oltre il dato congiunturale critico, negli ultimi anni c’è stata un’irresponsabilità politica profonda da parte del PT che rischia di avere altre ripercussioni: nello stringersi autoritario attorno a posizioni governiste; nella sordità nei confronti di qualsiasi opposizione di sinistra che non rientrasse nel suo alveo; nella miopia di fronte ai segnali d’insoddisfazione popolare; nel silenziare attraverso il discorso del “o con noi o contro di noi” quelle forze che da sinistra premevano per una radicalizzazione delle istanze sociali, come nel caso della repressione del movimento di giugno del 2013 (che aveva una consistenza ben maggiore rispetto alle manifestazioni attuali), il PT rischia di implodere e il Brasile di cadere rovinosamente nelle mani di una determinata offensiva reazionaria. (giuseppe orlandini)