Jukes, ci sono cose che non si trovano nei libri… (Tifone, Joseph Conrad)
Chiara Guidi, cofondatrice della compagnia Socìetas Raffaello Sanzio nel 1981, ha alle spalle oltre trent’anni di teatro sperimentale, laboratori, festival. La settimana scorsa è stata a Napoli per un doppio appuntamento a Galleria Toledo, arricchito da una serie di incontri all’Orientale, alla Federico II e all’ex Asilo Filangieri. Relazione sulla verità retrograda della voce (andato in scena il 19-20 marzo), nato da un incontro su Radio Tre, “Dimore delle voci”, più che uno spettacolo è stato una particolarissima conferenza: seduta a tavolino, alla luce di un piccolo abat-jour e con l’aiuto di un Mac da cui far partire tracce audio e suoni, l’attrice ha raccontato alcuni passaggi della sua lunga esperienza sulla complessa “questione della voce”, fulcro della sua ricerca teatrale, che sconfina nella linguistica e nella filosofia, passando per gli studi antropologici (come la preziosa traccia del “canto del morto”, registrato a Ischitella); una cartografia del suono che vede la voce come «una linea che gesticola con la parola, con i suoi gesti colloca la parola dentro di sé», dandole nuovo senso, nel luogo di (ri)creazione per eccellenza che è il palco.
La conferenza ha avuto una funzione preparatoria allo spettacolo vero e proprio. Assieme al musicista Fabrizio Ottaviucci, capace di far uscire suoni di viola, bassi, fiati solo da un pianoforte a coda, Chiara Guidi ha “rimontato” Tifone di Joseph Conrad (in scena il 21-22 marzo). Sullo sfondo di una scenografia minimale, e luci bassissime, con le sue voci, ritmi, pause, intonazioni, ha abitato scrittura e personaggi del romanzo, moltiplicandosi in una polifonia vocale che scompone e ricompone il testo facendocelo vedere, sentire addosso, col solo movimento (scenico) della voce.
Sabato pomeriggio, nello stacco tra i due spettacoli, Chiara Guidi ha partecipato a un incontro all’ex Asilo Filangieri, moderato da Rosalba Ruggeri. Seduta in cerchio con attori, studenti, giornalisti nella sala del teatro, ha condiviso la sua esperienza e il suo punto di vista di artista, libera pensatrice e operatrice culturale. Quello che segue è una testimonianza diretta dell’incontro, divisa per praticità in macro-argomenti:
La voce e il Tifone
«La mia ricerca si è sempre articolata tra due questioni fondamentali: la voce e l’infanzia. La voce è uno strumento musicale ma diventa anche l’ottica musicale per vedere la messa in scena di uno spettacolo; estrarre la voce di un testo è una ricerca di senso attraverso la voce. La voce è una sorta di corpo che indaga la struttura di un’opera. Davanti al testo, occorre sospendere il significato, riconoscere alla voce dell’animale, della macchina, del suono disarticolato, del respiro, del gemito una potenza espressiva che è capace di commuovere. Occorre abituare l’orecchio del teatro ad ascoltare, per poter vedere.
«Il suono non passa dalla preoccupazione di fare ordine, il suono ti commuove e non sai perché, è qualcosa che sfugge all’ordine logico, la capacità di reinventare al di fuori del linguaggio. Questo è il lavoro che ho fatto in Tifone. Il tifone è uno stato dell’anima, la necessità di un attraversamento, una catarsi che non genera una soluzione pacifica, ma la fondazione di una domanda. Con la “tecnica molecolare” [che si basa sull’imitazione di tutto quello che è possibile udire con orecchio umano, senza distinzioni, ndr], si sospende il significato delle parole e la trama si erge in piedi, si mostra in un corpo grazie al suono. Il suono ci ferisce, ma nessuno di noi sa dire perché ci tocca in quella maniera. Questo è quello che m’interessa del teatro, qualcosa che possa sfuggire al controllo della ragione, ma che possa dare la possibilità di compiere un’esperienza sonora; rimontare il testo, secondo un’ottica in cui ogni verbo diventa un’indicazione ritmica della voce: tutto è visto dal punto di vista del moto, dal centro del tifone. Dov’è il centro del tifone? Per saperlo dobbiamo consultare i libri ma non tutto è scritto nei libri. L’opera è autentica nella misura in cui è incompleta, se il racconto fosse completo, non esisterebbe. Non ci darebbe la possibilità di trovarci di fronte a un varco, di porre un altro quesito. Il racconto è interessante se lo si vede come un varco: quando leggiamo qualcosa che ci colpisce, ci cambia, pur non sapendo da dove questo racconto arrivi e dove questo racconto vada, come nelle favole: c’è l’inizio della favola, il momento “tifonico”, e poi veniamo lasciati in questo “felici e contenti” che altro non è che una consegna alla realtà».
Fare teatro, fare caos: l’importanza (e la fatica) del pubblico, la responsabilità di chi fa teatro
«Il teatro ci offre la possibilità di sospendere l’uso della ragione e di aprire la bocca: ma la parola aprire la bocca etimologicamente significa “caos”, aprire la bocca in greco si dice χάσκω: salire su un palcoscenico per aprire la bocca, cioè per fare caos, per poter rinominare le cose, per poterle ripetere, per poterle citare di nuovo, “recitare”, con la consapevolezza che quella cosa prima di tutto mi appartiene; non è qualcosa che faccio per informare, sedurre, intrattenere, non è questa l’arte che cerchiamo. Il pubblico dev’essere pensato da chi compone, ha una responsabilità fortissima, anche di fare fatica. Quando penso al pubblico, mi viene in mente qualcuno che sposta della legna. Quando sono in scena, il pubblico cerca di errare, di muoversi, d’inseguirmi. In questo, c’è qualcosa di dinamico: è dinamico sollevare le parole da una pagina scritta perché diventino azione scenica, il compito del teatro è sollevare. E un’altra cosa che è molto valida per questi tempi: il teatro deve farmi rientrare in me, ritrovare quel percorso che mi dia, come nei misteri iniziatici, la forza del cambiamento. Affidare al teatro una forza etica, politica: quello che si dice “un rischio”. L’arte, e soprattutto il teatro, aveva il compito di sublimare l’orrore della guerra, riportare la piazza al teatro. In questo momento, con l’arte abbiamo una grande responsabilità di riscatto, è un tempo in cui il teatro di ricerca non è ascoltato, tutto ci dice che quello che conta sono i numeri, e invece interessante costituire dei piccoli gruppi con piccoli numeri».
Teatro indipendente e comunità: l’esperienza del Centro Comandini
Il Teatro Comandini, un tempo Istituto e Laboratorio per fabbri e tornitori del ferro, è dal 1989 sede della compagnia teatrale Socìetas Raffaello Sanzio di Cesena. Chiara Guidi negli anni Novanta vi ha creato una Scuola Sperimentale di Teatro Infantile (con cui nel ‘98 ha vinto il Premio Speciale Ubu) e tuttora vi conduce diversi laboratori. Negli ultimi anni, sono nati due festival Màntica e Puerilia, quest’ultimo è un festival di “puericultura teatrale” rivolto ai parenti e a chi fa teatro con i bambini. L’obiettivo è incontrare i più piccoli, «considerando la cultura dei bambini come una cultura che mette continuamente in crisi il nostro modo di vedere le cose, ed è capace di deformarlo, spaccarlo». Dopo due anni di laboratori, è nato anche “Essere primitivo” (alla sua seconda edizione), un festival dove i ragazzi presentano ad amici e genitori i loro lavori; quest’anno faranno Le rane di Aristofane, dove la questione è la mancanza di un poeta per salvare il teatro di una città. Siccome c’era molta richiesta, la Guidi ha dovuto costituire un altro gruppo serale con gli universitari con cui sta facendo La Tempesta di Shakespeare. Ha inoltre formato un gruppo rinominato “Liberta di movimento” insieme a insegnanti e artisti della scuola pubblica di Cesena «per ribadire il concetto che l’insegnante è un artista, deve inventare per potere insegnare; con loro faccio delle letture su diversi testi, l’obbligo che hanno è rifondare il racconto attraverso la scelta delle parole. Valery diceva: “le intuizioni sono come dei bagliori fotografici che poi devo andare a ritrovare, a mettere a fuoco nella camera oscura”. Ecco, dobbiamo costituire nei centri occupati, nei piccoli teatri che finalmente rivendicano una presenza, delle piccole camere oscure che non prendano luce troppo dall’esterno, che prima di uscire all’esterno devono rientrare in se stesse».
Luoghi d’incontro, per costruire qualcosa autonomamente, “da dentro”, perché fuori è impossibile, anche per Chiara Guidi, che con una compagnia teatrale che ha trent’anni si rende conto dell’impossibilità di far girar ancora i suoi spettacoli in Italia: «A questo occorre dare una riposta, ma non protestando. Non ci troviamo qui per protestare, ma per raccontare la nostra esperienza e per vedere che dentro l’esperienza che facciamo c’è una liberta di movimento che va rivendicata. Desiderare significa “guardare le stelle di notte per attendere i nemici che tornino dai campi di battaglia”. In quanti siamo tornati, quanti siamo? È impossibile stare fuori, combattere fuori. Bisogna chiamare i giovani, mettere loro a disposizione i teatri, i tecnici, tutto gratuitamente (col ricavato dei festival, poche briciole di economie molto basse). È uno sforzo umano per resistere, un atto di resistenza che ti getta nel caos, come in ogni nascita». (francesca saturnino)