Dal n. 31 di Laspro / febbraio 2015
Matteo Furst è l’operatore sociale protagonista del romanzo Un maledetto freddo cane, di Luca Palumbo. Attualmente lavora presso un centro per richiedenti asilo della capitale.
È un centro di accoglienza enorme, si intuisce subito che è un labirinto tortuoso, gelido e tetro. Sono riuscito a oltrepassare una vigilanza assonnata, mi hanno detto di raggiungere Matteo Furst, di fare quattro chiacchiere con questo operatore sociale scorbutico, perennemente sul piede di guerra con tutto e con tutti. Me l’hanno indicato con un sorrisetto sarcastico.
Non risponde nemmeno al mio saluto, mi dice in un borbottio di seguirlo in mensa. Sta aiutando un addetto al refettorio, un senegalese, a scaricare polibox pieni di cibo destinato ai rifugiati e ai richiedenti asilo politico del centro per la cena. Afferra i contenitori con rabbia, scaraventandoli rumorosamente sui carrelli. L’addetto senegalese lo osserva ridacchiando, poi guarda me perplesso. Non so come comportarmi esattamente, forse non dovevo venire. Accenno timidamente a Matteo Furst della recente tentata incursione nel centro da parte di un gruppo di estrema destra che da anni pretende la chiusura della struttura e l’allontanamento dal quartiere degli zammammeri (oscuro e controverso termine dialettale che nel centro in cui è ambientato questo pezzo alcuni utilizzano per definire i migranti duri di comprendonio e dai modi rozzi, ndr). Gli chiedo se i rifugiati del centro temono un altro attacco, una possibile escalation di razzismo. Lui lancia l’ultimo polibox in un carrello e mi fa bruscamente cenno di avvicinarmi. Scoperchia tre contenitori. «Paura dei fasci? Tzè, guarda qua. Questi temono il menu. Pasta al sugo a pranzo e cena, cosce di pollo con l’alzheimer e patate con la cirrosi epatica tre volte la settimana, mi domando sempre chi cazzo è il dietista. È di questa merda che hanno paura, mica di quattro cerebrolesi che credono che noi ai beduini, oltre a ficcargli in tasca la paghetta di papà che paga le tasse, gli facciamo pure un paio di pompini in omaggio».
Rimango interdetto, mi chiedo cosa c’entri con il razzismo che imperversa alle porte del centro, forse il suo è soltanto uno sfogo generalizzato. Provo a dirgli che intendevo altro. «Quello che succede lì fuori è manipolazione da quattro soldi, bullismo da frustrati allucinati che credono di essere invasi e depredati da zammammeri armati di scimitarre e kalashnikov. Questi fanno pisciare sotto dal ridere, stanno col cervello fucilato. Il razzismo, come lo chiami tu, è qui dentro, ci arriva sottoterra attraverso una galleria che non finisce più». Faccio una smorfia strana, perplessa. Poi un’illuminazione: forse Matteo Furst sta parlando di razzismo nel sistema, anzi strutturale. Ma mi sto zitto, temo una sua reazione brutale. Ripone i coperchi sui polibox e mi si avvicina nervoso. Indietreggio un poco. «Razzismo non è dirti negro di merda, non più, e quello che vedi sulle strade è uno sfogo indotto che però convince solamente un’accozzaglia di fasci e populisti intristita dalla solitudine e dall’inutilità. Ora accade tutto all’interno, e non si chiama più razzismo ma sfruttamento. Uno sfruttamento totale, lucidamente contraddittorio, pensato sotto ogni aspetto, come ad esempio quello della qualità dei pasti. In un periodo va bene, in un altro va di merda, un gioco perverso che stuzzica periodicamente il sistema nervoso degli zammammeri».
Avere a che fare con l’ennesimo complottaro paranoico non è proprio quello che mi ci vuole in questo momento. Forse però mi sbaglio, probabilmente vuole dirmi altro. «Quello dei pasti è solo un dettaglio di tutto un sistema di controllo dell’utenza. Certo, si tratta semplicemente di congetture personali senza prove concrete, pippe mentali insomma, non senza motivo, però. Ma ora i fatti». Già, i fatti. Usciamo dalla mensa, imbocchiamo un lungo corridoio. Incontriamo alcuni rifugiati. Matteo Furst li saluta, stringe loro le mani, chiede com’è andata la giornata. Non me li presenta. I ragazzi rispondono a monosillabi, non sembrano contenti, accennano sorrisi amari, parlano di soldi che non arrivano. Li lasciamo, proseguendo il cammino in quel freddo labirinto. Matteo Furst avanza velocemente, faccio fatica a stargli dietro. «Li hai visti quelli? Sono appena tornati da un tirocinio di non so quanti mesi».
Un tirocinio? Una buona cosa, dico. Matteo Furst si ferma improvvisamente e si volta a fissarmi con uno sguardo torvo. «Una buona cosa il cazzo. Fanno tutti lo stesso tirocinio, più o meno, insieme. Prima di loro ce ne sono stati altri, e dopo ce ne saranno altri ancora. Sono tirocini patrocinati e finanziati dalle istituzioni locali e dati in appalto all’azienda che è la vera padrona di questo centro di accoglienza e di tanti altri sul territorio. Una holding che tiene per capezza le cooperative che si occupano dell’accoglienza. Vanno in azienda a pulire cessi o aiutare nelle cucine, a gruppi selezionati di volta in volta. Per ogni gruppo di ragazzi si spera in qualche assunzione che regolarmente non avviene, in questo modo l’azienda si assicura ciclicamente manodopera a gratis, senza interruzione, attingendo ai centri di accoglienza che essa stessa gestisce. La beffa è che molto spesso le istituzioni locali tardano parecchio nei pagamenti e i tirocinanti restano a lungo senza un centesimo, perché quelli che fanno un tirocinio partito dall’interno di tutto l’ambaradan di azienda e cooperative non hanno diritto a ricevere il pocket-money durante il periodo in cui sono occupati (il pocket-money è una somma in denaro che viene erogata ai beneficiari del sistema Sprar, Sistema Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati, ndr). Questo io lo chiamo sfruttamento delle categorie a rischio, che è molto peggio dello squallido razzismo che vediamo lì fuori. Uno sfruttamento che accresce il senso d’impotenza, di rabbia repressa e di umiliazione a chi nel culo ha già preso un sacco di cazzi».
Il mio reportage sul sistema accoglienza dei rifugiati comincia ad assumere sfumature nichiliste e radicali. Penso che forse Matteo Furst stia un po’ esagerando. Dico che probabilmente qualche tirocinante che dimostra buona volontà viene assunto. «Certo, come no. Qualcuno di loro che si fa il mazzo viene pure assunto ogni tanto, con contratti interinali di un paio di mesi, aumentando di fatto il precariato». Mi viene subito in mente una provocazione: lì fuori c’è gente che pensa che un contratto interinale a uno zammammero (pur ignorando il vero significato di questo termine confesso che comincia a piacermi) è pure troppo e che in quanto a lavoro vengono prima gli italiani. Ma ovviamente taccio, ho paura che mi prenda a calci. «Vieni, ti faccio assistere a un colloquio con uno dei ragazzi. Sono colloqui che noi operatori sociali siamo tenuti a fare per verificare come procede il loro progetto all’interno del sistema Sprar. Dura sei mesi, roba da ammazzarsi dal ridere».
Scendiamo al piano terra, entriamo in un ufficio ampio e freddo. Matteo Furst fa una telefonata a un ragazzo del centro, un somalo. Appena questi arriva, ci accingiamo a dirigerci in un altro ufficio ancora, più piccolo e meno gelido. Ci sediamo, il ragazzo somalo mi guarda interrogativamente. Matteo Furst, senza presentarci, lo rassicura dicendo che sono un operatore sociale tirocinante, che sta imparando il mestiere. Il somalo ride, Matteo Furst pure. Io sorrido meccanicamente, con lo sgradevole presentimento che mi stiano prendendo in giro. «Allora Rashid, che mi dici? Dai, sono passati solamente cinque dei sei mesi previsti dal contratto di accoglienza. Culo hai avuto che già parlavi italiano quando sei entrato sennò dovevi pure perdere tempo con la scuola. Insomma, hai fatto tre mesi di tirocinio con l’azienda, non sei stato assunto e ancora ti devono pagare. Stai cercando lavoro? Stai mandando curriculum? Ti resta solo un mese. Sei nell’ultima fase del progetto, ora hai gli strumenti e il tempo per cercare di svoltare. Lo so Rashid, un mese non è un cazzo, è un tiro di sigaretta. Io sono il tuo operatore di riferimento, farò del mio meglio, fidati. Proverò a farti avere una proroga sulla permanenza. Stammi bene, ti farò sapere. Che c’è a cena stasera? Quello che c’era ieri, però a ‘sto giro nel sugo della pasta ci sono pure le melanzane». Il ragazzo somalo saluta e se ne va. Noi restiamo seduti in ufficio. Matteo Furst china il capo e aggiorna dei documenti misteriosi, dalle labbra gli esce una mezza bestemmia. Gli chiedo se veramente Rashid andrà via dal centro tra un mese. «Dipende. In realtà il più delle volte i ragazzi riescono a ottenere delle proroghe su nostro suggerimento, perché in sei mesi non sono riusciti nemmeno a farsi fare un curriculum decente e non saprebbero davvero dove andare e cosa fare. Certo è che con il sistema Sprar le proroghe sono molto limitate. Nello stesso tempo però ci sono alcuni che ci marciano, e di brutto pure. Certi lavorano, hanno un buon contratto, ottimi agganci all’esterno ma poi al momento dell’uscita sostengono di avere perso tutto e che non hanno alternativa alla vita di strada». E in questo caso come si comporta l’operatore sociale Matteo Furst, chiedo in tono bonariamente provocatorio. «Di solito mi faccio i cazzi miei, nel senso che conosco le situazioni ma le tengo per me. È in maniera del tutto personale e privata che prendo di petto i più paraculo e gli faccio capire che sono dei coglioni a rimanere in questo cesso di centro se hanno la possibilità di uscire».
Sta venendo fuori una figura probabilmente in piena sindrome da burn-out, penso. Ma quello che mi preme sapere di più ora è altro. Gli domando se realmente quelli che escono senza aver ottenuto alcun risultato durante il percorso progettuale rischiano di finire per strada. Per la prima volta lo vedo esitare. Alza lo sguardo e mi fissa assorto. «Alcuni sì, ma poi dopo qualche tempo scopri che sono andati a finire in un altro centro gestito dalla stessa cooperativa. Ci sono rifugiati che saltano da un centro all’altro da anni. Le cooperative se li passano, poi è quella più forte che alla fine vince e se li aggiudica per più tempo».
E come reagisce la categoria degli operatori sociali dinanzi a questo meccanismo perverso, si sente vittima al pari dei rifugiati? Matteo Furst scuote la testa. «Siamo sfruttati che lavorano a contatto con altri sfruttati molto più inguaiati di noi. Si parla tanto di integrazione ma l’unico processo in questo senso all’interno del sistema accoglienza avviene proprio tra queste due categorie sfruttate e soprattutto frustrate. A lungo andare è un’integrazione che sfocia nello scontro e finisce che ci scorniamo a vicenda senza renderci consapevoli della vera natura del conflitto. Ed è anche colpa di noi operatori. Siamo vittime in qualche modo, ma pure complici». Ma come, dico, ultimamente avevo spesso sentito che la categoria degli operatori sociali stava diventando una sorta di nuova classe operaia, battagliera e compatta. Matteo Furst mi fulmina con lo sguardo. Sta per spalancare la bocca probabilmente per insultarmi ma per mia fortuna viene distratto da urla provenienti da qualche parte della struttura. Sulle sue labbra appare un sorriso maligno. «Sono giorni che non funzionano i riscaldamenti e ora si sono rotti le palle. Vieni, ti faccio vedere come sbrocca uno zammammero con uno dei colleghi che mi stanno più sul cazzo». E si fionda eccitato per i freddi corridoi. (luca palumbo)