Lo scorso 26 marzo si sono compiuti sei mesi dalla scomparsa dei quarantatré studenti della Scuola Normale Rurale “Raul Isidro Burgos” di Ayotzinapa. A Città del Messico, dal palco montato ai piedi del massiccio Monumento alla Rivoluzione, Maria Elena Guerrero Vazquez si rivolge a chi ha marciato fin lì: «Credo che il dolore di madre sia ormai diventato furia contro questo governo». Maria Elena indossa una maglietta bianca con stampata la foto di suo figlio, Giovanni Galindes Guerrero, e come gli altri genitori presenti regge un manifesto plastificato con una seconda foto del figlio, la sua età, il nome e la richiesta della presentazione con vita dei giovani desaparecidos.
La luce del tramonto sagoma i familiari degli studenti scomparsi. Visti controluce dalla platea iloro volti si anneriscono e rischiarano, i cartelli che mantengono palpitano come piccoli schermi. Gli interventi che si susseguono insistono sull’importanza della solidarietà, il sentire che non si è soli nella ricerca dei propri cari. In effetti, negli ultimi tempi le marce sono meno affollate, non si vedono più le fiumane che occupavano le strade durante i primi mesi. Ed è innegabile che la reiterazione del ricordo, mese dopo mese, sia accompagnata da un ristagno dell’azionemaanche da fastidio e condanna nell’opinione pubblica. Oltre l’abbraccio della cittadinanza solidale, infatti, gli studenti normalistas, i loro familiari e in genere chi manifesta sono considerati, secondo i punti di vista, come i miserabili, i contadini, i cafoni, gli indios, i parassiti, i ladri, i nullafacenti, i vandali, i provocatori; percezionifomentate dai mass media e dall’apparato di governo che negli ultimi tempi insiste nel chiedereai parenti dei giovani di accettare quanto successo, di superare il dolore e di guardare avanti.
Passati sei mesi la procura generale della repubblica è inamovibile rispetto a quella che sostiene essere la “verità storica” dei fatti: il crimine è stato commesso per mano di narcotrafficanti affiancati da un manipolo di governanti corrotti e cani sciolti. A suffragare la trasparenza e l’esaustività delle indagini, gli arresti di centoquattropresunti colpevoli e altri nove ordini di cattura ancora in sospeso. Che lacarenza allarmante di prove per le autoritàsia un dettaglio trascurabile,è confermatodalle affermazioni dell’arcivescovo della città di Acapulco che, a inizio febbraio, ha invitato i genitori ad accettare la morte dei propri figli dal momento che, anche se non dispone di evidenze scientifiche, la procura ha delle certezze al riguardo.
Che il caso Ayotzinapa sia un “intoppo” e che il lutto e la rabbia di decine di famiglie siano un ostacolo da scavalcare, è il messaggio ripetuto dal governo senza troppe dissimulazioni. D’altronde già nel video di benvenuto al 2015 diffuso dal governo, un patchwork frenetico degli eventi che hanno segnato il Messico durante l’anno passato, Ayotzinapa e le proteste relazionate vengono narrate come fatti appartenenti a un passato dalasciarsi alle spalle. Le immagini che chiudono il video parlano di industria e impresa, unico punto di partenza se si vuole pensare in grande al futuro della nazione. Superare il dolore, quindi, per aprirsi al progresso.
Con la stessa retorica è probabile che venga affrontato il boicotaggio delle elezioni federali e locali del prossimo 7 giugno. Una delle principali petizioni del movimento capeggiato dai familiari è che nello stato di Guerrero – incui si dovrebbe eleggere anche il nuovo governatore – nonsi svolgano le elezioni dato l’alto indice di corruzione, impunitàe insicurezza. Sempre a Città del Messico, durante la mattinata del 26 marzo, una delegazione di genitori dei normalistas scomparsi ha consegnato al presidente dell’Istituto Nazionale Elettorale un documento contentente le proprie istanze. Anche se trattata in sordina, la minaccia maggiore èrappresentata dalla complicitàdel mondo della politica con il crimine organizzato nella regione, unotra i principali corridoi della droga nel paese. Il coinvolgimento di esponenti dei vari partiti non si riassume in pochi casi isolati e nello stato non si contano gli omicidi e la sparizione di politici di ogni colore. Negli ultimi mesi le minacce contro gli organismi elettorali locali si sono moltiplicate al tal punto che il governo staconsiderando se blindare la giornata elettorale di giugno con la collaborazione delle forze armate.
Il governo, e la classe politica in generale, ha fretta di chiudere il caso. Ma Ayotzinapa ha condensato il dolore che si vive nel paese. La cassa da morto fabbricata precipitosamente dallo stato – e in cui si è cercato di rinchiudere i quarantatré studenti, dandoli subito per deceduti – si è invece trasformata in una cassa di risonanza che ha rimandato l’eco dei soprusi degli ultimi anni. Certo, sarebbe ingenuo pensare che i fatti di Ayotzinapanon vadano a sommarsi alla semina di massacri che compongono ormai la trama del paese e che il lavorio del tempo non finisca per favorire il persistere dell’impunità. Allo stesso tempo però non si può non considerare come Ayotzinapaabbia in parte spodestato la proprietàprivata della memoria. Questo perché il dolore, il trauma, la rabbia non sono rimasti, come normalmente succede, esperienza ristretta nel circolo piú intimo di chi li vive in prima persona ma hanno permesso che il male venisse riconosciuto come tale. Diventata innanzitutto sinonimo di sparizione forzata, Ayotzinapa ha scosso dal torpore e dall’amnesia un paese su cui l’iperviolenza degli ultimi anni ha gettato una patina anestetizzante.
L’esigenza di verità e giustizia ha oltrepassato i confini del caso specifico ravvivando e mettendo in rete altre forme di resistenza o persone distanti accomunate dallo stesso lutto (in particolare quello della sparizione forzata, a tutti gli effetti un cancro che divora diversi stati del paese). Ma soprattutto ha generato la possibilità di nominare la paura, di cercare di liberarsi dalla sua morsa. Gli slogan diventati simbolo delle proteste per Ayotzinapa –“Ci hanno tolto tanto che ci hanno tolto anche la paura”; “Hanno paura di noi perché non abbiamo paura”; “Mi sono stancato/a della paura” – ci ricordano che nominare è riconoscere e che nominando si può districare l’incomprensibilità insita nella paura. Come riflette anche Sergio Rodriguez (autore del libro sui femminicidi di Ciudad Juarez, Ossa nel deserto, pubblicato in Italia da Adelphi), “dare un nome alle cose, segnalarle nel mondo, rappresenta unamossa strategica rispetto alla fenomenologia della paura e al suo potenziale distruttivo/costruttivo”.Una mossa esposta a mille avversità, certo, ma in grado di aprire unapiccola breccia mettendo in discussione il fatto che violenza e paura siano una condizione naturale in cui vivere. (caterina morbiato)