Questo mare è di piombo è un documentario per la radio e allo stesso tempo uno spettacolo di narrazione dal vivo. Un’epopea collettiva dalla Frontiera sud dell’Europa che viene presentata per la prima volta a Napoli in un appartamento del centro storico. Dal filo spinato a lame taglienti di Melilla, la città bastione che difende i confini europei in terra d’Africa, fino alle logore tende del campo fantasma di Choucha, in Tunisia, l’audio documentario realizzato e messo in scena dall’agenzia radiofonica Amisnet guida il pubblico attraverso le tante terre di nessuno disseminate sulle coste del Mediterraneo. Luoghi in cui il tempo è sospeso e si resta in attesa di una porta, di uno spiraglio, di una crepa che permetta di passare alla tappa successiva.
Questo Mare è di Piombo è stato presentato a Crotone, a Roma, a Ferrara, a Lari, a Lucca e al Prix Europa di Berlino, dove è stato selezionato tra le quindici migliori produzioni radiofoniche d’attualità in Europa.
Sabato 18 aprile l’appuntamento napoletano. La narrazione sarà ascoltata dal pavimento di un appartamento del centro, con posti disponibili fino a un limite di massima saturazione. È necessaria pertanto prenotazione. L’indirizzo verrà comunicato al momento della conferma. Per prenotare: [email protected]
Regia, composizione sonora: Amisnet; Mio studio
Durata: 48 minuti
Voci narranti: Marzia Coronati, Andrea Cocco, Marco Stefanelli
Questo mare è di piombo è un importante audio-reportage di bilancio sulle politiche migratorie europee dell’ultimo decennio, o poco più. Concentra la narrazione intorno alla cruciale Frontera sur, lo spazio di mare e terra che separa l’Europa dal sud del mondo che le è più prossimo: il Marocco. Il fondo del lavoro – ruvido, costante, certo – è scandito dal ritmo del mare. Quel mare che si fa possente sotto lo stretto di Gibilterra, snodo tra l’oceano Atlantico e il Mediterraneo, ingoiando vite e vite di persone in fuga dai paesi di origine verso la Spagna. Questo nel lavoro c’è: la restituzione dell’orrore di traversate senza approdo in Europa. Ci sono le testimonianze dei sopravvissuti. Al naufragio, alla tratta, a se stessi.
Questo mare è di piombo ha però come focus la frontiera terrestre. Le città di Ceuta e Melilla si trovano nella costa settentrionale del Marocco ma appartengono alla Spagna. Distano duecentoventicinque chilometri. Qui la frontiera tra il Maghreb e l’Europa è difesa da una tripla barriera metallica alta dai quattro ai sei metri, e lunga, intorno a Ceuta, quasi dieci chilometri, e a Melilla poco più di otto. Progettata e costruita dalla Spagna (e innalzata al massimo con il beneplacito dell’agenzia europea Frontex), la barriera è costituita da filo spinato. Un groviglio di cavi e spine per cui la Comunità Europea ha scucito trenta milioni di euro. Dotata di illuminazione ad alta intensità, di un sistema di videocamere di vigilanza a circuito chiuso e strumenti per la visione notturna, è supportata da cavi interrati connessi a sensori elettronici acustici e visivi in rete. Intorno posti di vigilanza e camminamenti per i veicoli di sicurezza. La barriera serve a impedire l’immigrazione illegale e il contrabbando. È però porosa e permeabile: tra il 2003 e il 2014 circa ventottomila migranti sono riusciti a entrare a Ceuta e Melilla.
È nella pancia di questo luogo impossibile, ai piedi del muro, che il documentario inizialmente ci guida. La barriera è qui, di fronte a noi. Avvertiamo la sua natura, ne comprendiamo lo scopo. Tutta la narrazione è filtrata dalla lottizzazione spinata. A Ceuta e Melilla si concentra la pressione di migranti dall’Africa sub-sahariana. Le forze di polizia marocchine e spagnole hanno messo in atto forti misure repressive verso gli irregolari. Questo mare è di piombo documenta ripetuti gravi episodi di violazioni dei diritti umani ai loro danni. E lo stesso a Choucha, in Tunisia, passando per il monte Gurugù. Un documentario che attraversa «luoghi in cui il tempo è sospeso e si resta in attesa di una porta, di uno spiraglio, di una crepa che permetta di passare alla tappa successiva». Luoghi simbolici in cui le sovranità si scontrano in un gioco tra poteri deregolamentati, quanto al trattamento dei migranti. Irreggimentati da un diritto internazionale marginale rispetto ai poteri del mercato e della politica.
Questo Mare è di piombo esplora le conseguenze delle politiche migratorie europee, e s’impone, nel quadro delle audio pubblicazioni recenti sul tema, per originalità, densità e spessore critico. È subito chiaro che l’“effetto chiamata” consegue alle enormi disuguaglianze politiche, economiche e sociali tra sud e nord del mondo, a fronte del restringimento dei canali dell’immigrazione regolare e del massiccio ricorso alle espulsioni. E che la chiusura delle frontiere rafforza reti criminali e mafiose che sfruttano il traffico internazionale di esseri umani e induce la violazione del diritto di asilo.
Il documentario concentra interviste a migranti, regolari e non, e accoglie testimonianze di soggetti altri che partecipano all’impasse migratoria dal Marocco verso l’Europa. Parla anche la Guardia civil spagnola («Questo muro è l’unica cosa che può mettere un freno all’immigrazione irregolare»), in un crescendo di “immagini”, che, incastrate fluidamente, ci lasciano liberi di dar volto ai luoghi, fisici e umani, che attraversa. Dagli anfratti terrestri in cui è stipata certa umanità, ai cani e agli altri randagi che s’imbattono nella soglia spinata. Avvertiamo subito, sopra e dentro di noi, il peso della strage. Quel filo a lame taglienti preme sulla narrazione. Ci si offre, grezzo, sin dall’anno in cui è stato brevettato in Mississipi. Era il 1874.
Ne la Valla, la recinzione militare di Melilla, un tempo non c’era frontiera. Ma la barriera via via si alza, e i requisiti per entrare aumentano. A un tratto sentiamo di due assalti alla frontiera, di centotrenta migranti arrestati dalla polizia spagnola e marocchina, di sette feriti, di un morto davanti alla videocamera. E di informatori, sia da parte marocchina che spagnola.
Questo mare è di piombo ora ci spinge verso il campo allestito sul monte Gurugù, indicandoci come scalare la barriera difensiva, ora ci catapulta a Choucha, in Tunisia. Qui il deserto ci avvolge, lasciandoci in gola ruvidi granelli di sabbia. Choucha è una “macchia gialla”. È un fluire di anime sotto le tende per l’emergenza dell’Unhcr, intorno al campo fantasma chiuso nel 2013. Diciassettemila persone vivono ancora a Choucha, come possono. Arrivano dal Ghana, dalla Sierra Leone, dalla Nigeria, dalla Somalia, dal Bangladesh, dalla Palestina. I profughi sono stati accolti in Canada, negli Stati Uniti e in paesi del nord Europa. Molti di loro, in fuga dalla Libia, non avevano i requisiti di rifugiati. E la linea bianca, la strada che porta proprio alla Libia, e che ora “vediamo”, scuote i nostri sensi sonori, mentre il rapporto Frontiera sud 2014 snocciola la contabilità della repressione, tra morti, feriti ed espulsi.
Torniamo così a Melilla. Al 26 aprile 2013. Questo mare è di piombo documenta la “riconsegna a caldo” di migranti che hanno tentato il salto de la Valla. Sentiamo di rondas dell’autorità marocchina, di un furgone saturo di uomini e del loro provvisorio rilascio in un cimitero, concordato con agenti operativi sull’altro lato della frontiera. È il racconto della zona A13, con due porti di accesso al Marocco. L’unico tratto del paese in cui non ci sono telecamere.
Il documentario ha una tenuta d’insieme forte. Ci tira dentro. Sempre in equilibrio i testi, tra mano autoriale (aperta alla forma diaristica) e interviste (ben lavorate e utilizzate). Con musiche ben scelte e sapientemente impastate al resto. E in chiusura la liberazione in un grido, le verità. Un lavoro importante, che ci serve. (ornella bellucci)