Mentre l’assessore regionale alla cultura Miraglia e Luigi Grispello, presidente della Fondazione Campania dei Festival, presentavano uno dei più deludenti programmi del Napoli Teatro Festival e Luca De Fusco (bontà sua!) faceva un passettino indietro dimettendosi da direttore della rassegna, Michele Murino lanciava un appello ai cittadini di Vallo della Lucania per intitolare il teatro comunale, di prossima inaugurazione, a Leo de Berardinis, il grande attore nato a Gioi Cilento nel 1938 e scomparso a Roma nel 2008, dopo essere stato in coma dal 2001 in seguito a un banale intervento di chirurgia estetica.
L’iniziativa va decisamente sostenuta, anche perché offre l’occasione di tornare a parlare di uno straordinario autore, attore e regista italiano su cui – salvo sporadiche iniziative – da alcuni anni è calato l’oblio (ma stessa sorte a Napoli è toccata ad autori molto diversi e lontani nel tempo tra loro, come Roberto Bracco e Antonio Neiwiller); un silenzio ancor più inaccettabile in una realtà come quella napoletana dove la sua esperienza col Teatro di Marigliano (1972) – è stata particolarmente vitale e innovativa.
Di fronte al prevalere del mercato anche in campo artistico e di una programmazione teatrale spesso tristemente omologata, non deve meravigliare che neppure lo Stabile cittadino – ora assurto a Teatro Nazionale – abbia mai pensato in questi anni di far rivivere la lezione di un grande maestro del Novecento (Claudio Meldolesi), che considerava il teatro un luogo della conoscenza capace di riattivare l’arte scenica della tradizione italiana.
La storia teatrale di de Berardinis ha inizio intorno alla metà degli anni Sessanta, in un periodo di grandi trasformazioni culturali e politiche. Al conformismo della scena italiana di allora, i gruppi teatrali della sperimentazione lanciarono la sfida di un teatro radicalmente alternativo; e alcuni giovani attori come Carlo Quartucci, Carmelo Bene e Leo de Berardinis, nel giro di qualche anno diventarono i protagonisti di un linguaggio teatrale antiaccademico e antiborghese; con Bene, de Berardinis – dopo aver lavorato da attore con Quartucci nelle cantine romane –, mette in scena, nel 1968, Don Chisciotte, spettacolo che destruttura radicalmente i tradizionali canoni del teatro di rappresentazione.
Il salto verso un’autonoma strada sperimentale, de Berardinis lo compie partecipando al convegno dei gruppi teatrali della ricerca, che si tenne a Ivrea nel 1967, dove con Perla Peragallo – sua compagna di arte e di vita – presenta La faticosa messinscena di Amleto, un lavoro molto apprezzato in Francia, che contaminava cinema e teatro e aveva un rapporto diretto col loro vissuto. Nel dramma e nell’estraneità al mondo di Amleto, infatti, Leo e Perla si riconoscono, vedendo riflessa l’inquietudine e la precarietà della propria esistenza ai margini. Leo e Perla sono convinti che in una società controllata dall’apparato tecnologico-scientifico del Capitale, il teatro sia necessario proprio come alterità, come un luogo in cui non possa esserci alcuna confusione tra la finzione e la vita, perché – aggiungono – è proprio questo “stacco”, questa invalicabile linea di confine che ci fa vedere la vita. E, sempre in polemica con l’indirizzo di un’avanguardia che sceglie di operare fuori del teatro, Leo non mancherà mai di sottolineare che “il teatro è l’attore” e che “l’eliminazione del teatro deve avvenire per mezzo del teatro”.
È proprio la radicalità di questa posizione che spinge Leo a rompere gli indugi e a trasferirsi dalle cantine romane alla Masseria Sentino, a Marigliano, ricominciando da zero, a diretto contatto con un mondo non ancora corrotto dal consumismo. Nei loro spettacoli i due attori coinvolgono i contadini e gli operai del luogo, che Leo considera attori “geopolitici” in quanto, a suo avviso, incarnano la marginalità estrema di una condizione sociale. Il Teatro di Marigliano di Leo si può considerare uno spazio anarchico di libertà: un “teatro del disordine” che mette in discussione qualsiasi gerarchia di valore e i codici rappresentativi del teatro borghese. Chiamano “teatro dell’ignoranza” questo loro sguardo utopico aperto al flusso della vita, da cui scaturiscono lavori straordinari per originalità e forza poetica; basti ricordare Compromesso storico a Marigliano – una processione provocatoria che coinvolge l’intero paese – e spettacoli come ‘O Zappatore (1972), King lacreme Lear napoletane (1973) e Sudd (1974).
L’isolamento istituzionale più assoluto costringe, dopo qualche anno, Leo a lasciare Marigliano per far ritorno a Roma, dove intraprende una collaborazione proficua con un gruppo di artisti e strumentisti jazz. In questo periodo continua la ricerca sul comportamento dell’attore e sull’improvvisazione teatrale, elaborando un linguaggio scenico immediato che si trasforma in uno strumento che consente all’attore di “autorappresentarsi” in tutta la propria fragilità esistenziale (De Matteis).
L’esperienza romana – segnata da riallestimenti scespiriani e da variazioni su Dante e Joyce – è brutalmente interrotta col licenziamento da Nuova Scena. Nel 1987, fonda a Bologna il Teatro di Leo. In questi anni, con una comunità di giovanissimi attori, mette in scena, tra gli altri, Novecento e mille, spettacolo che lo consacra come il maggiore autore attore vivente della scena italiana.
Per tutti gli anni Ottanta, in realtà, de Berardinis, ritorna sui temi del teatro classico a lui cari, alternandoli a quelli del teatro popolare, per alludere ai disastri dell’oggi: da Amleto a King Lear, da Totò principe di Danimarca a Haddà passà ‘a nuttta, da Don Giovanni a all’Impero della Ghisa, sino ai Giganti della montagna e a past E ve and Adam’s. Di notevole respiro europeo è la sua direzione – dal 1994 al 1997 – del Festival di Santarcangelo di Romagna, così come la direzione, dal 1994, del Teatro Laboratorio San Leonardo, a Bologna.
Pochi sanno che Leo de Berardinis è stato tra i più acuti teorici del teatro europeo del Novecento. Nella sua investigazione ultima, pensa al teatro come “come esperienza reintegrativa” in grado di contrastare l’omologazione e la catastrofe globale dei nostri giorni. Aperture etiche, politiche, culturali, segnano l’attività interartistica del Teatro San Leonardo, dove fonda una comunità d’accoglienza aperta ad altri mondi e culture. Testi come Teatro e Emergenza (1990), Teatro e Sperimentazione (1995), Aprire un teatro (1995), Per un teatro pubblico popolare (1996), Per un teatro popolare di ricerca (1999), Per un laboratorio permanente di ricerca teatrale (2001), costituiscono ancora oggi una guida imprescindibile per tanti giovani attori che guardano all’esperienza scenica come scambio relazionale e scoperta dell’Altro. “Perché il teatro è veramente lo specchio profondo del Tempo, dove l’uomo riflette se stesso, non per fissarsi nella fissità della propria forma, ma per scrutarsi, allenarsi, come un danzatore. Il teatro si giustifica solo se è il paradigma dell’abbattimento delle differenze economiche e culturali, se ha la potenza di trasformare se stessi e gli altri, insieme agli altri, senza abbassare la propria arte”. È questo suo sguardo lucido sul teatro e il mondo che non ci ha mai lasciato e continua a indicarci un cammino diverso tra le macerie della nostra storia. (antonio grieco)