Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su africasacountry.com il 22 ottobre 2014, in risposta alle dichiarazioni del ministro dell’interno sudafricano Malusi Gigaba che accompagnavano la nascita della Border Management Agency. La nuova agenzia garantirà la sicurezza di ogni varco d’accesso al paese e la sua protezione “dalle minacce oltreconfine così come dalla porosità dei confini stessi”. Pensiamo sia importante riproporlo oggi alla luce della nuova ondata di violenza xenofoba diretta contro gli immigrati e i rifugiati africani nella regione del Kwazulu-Natal (innescata dalle considerazioni odiose e offensive del re zulu Goodwill Zwelithini, per le quali tutt’ora il sovrano rifiuta di scusarsi). Il presidente sudafricano Jacob Zuma non è stato rapido nel condannare le dichiarazioni del re che ora gode del sostegno di molti altri leader delle comunità tradizionali. Intanto la violenza xenofoba ha contagiato Johannesburg, prima sui social, ora per le strade. Un motivo ulteriore per ripubblicare questo contributo. Per chi volesse un aggiornamento costante sulla vergogna di questi attacchi rimandiamo a a#XenophobicSA. (la redazione)
Ogni africano che abbia mai tentato di recarsi in Sudafrica sa che questo non è un paese dove si entra facilmente. Le ambasciate sudafricane sparse per tutto il continente presentano le stesse difficoltà di accesso di quelle inglesi o americane. Le caratterizzano file immense, un cumulo esagerato di moduli da compilare e funzionari al tempo stesso maleducati e indolenti. […]
Sono sudafricana ma sono cresciuta in esilio. O meglio, sono stata allevata in quell’Africa che non è il Sudafrica; quel luogo di fascino e mistero oltre le rive del Limpopo. La prima volta che sono tornata a casa, a metà anni Novanta, in quei primi mesi in cui provavo ad adattarmi a vivere qui, sono rimasta spesso colpita dal modo particolare in cui i sudafricani, bianchi o neri che fossero, utilizzavano il termine Africa.
Visto che parlo con la pronuncia sofisticata di chi è stato educato all’estero, mi sentivo spesso chiedere di dove fossi. Così rispondevo che i miei genitori erano sudafricani ma vivevano all’estero e che ero cresciuta in Zambia, in Kenya, in Canada. La mia famiglia era stata anche in Etiopia. Ogni volta, l’interlocutore annuiva in segno di simpatia fin quando non realizzavano il pieno significato di quanto stavo dicendo: «Ah». Dopo un respiro profondo, giungeva il fascino dell’orripilante. «E così sei cresciuta in Africa», dove “Africa” era pronunciata con attenzione, l’ultima sillaba trascinata e intonata in crescendo, come se l’affermazione fosse di fatto una domanda. Per poi arrivare all’inevitabile e appena mormorato:«Peccato».
Benché si ritenessero molto diversi, a me pareva che, in fatto di “Africa”, neri e bianchi sudafricani nutrissero idee sorprendentemente simili. All’inizio imputavo la responsabilità al più ovvio dei colpevoli: l’apartheid. […] Ma non avevo ben capito che questa visione distorta dell’Africa è alla base dell’idea stessa di Sudafrica. Proprio come la whiteness ha senso finché contrapposta alla blackness intesa come barbarie, il Sudafrica e la sua idea poggiano pesantemente sulla costruzione di un Africa come luogo di caos e violenza per potersi presentare a se stesso come un paese organizzato, preciso, efficiente e civilizzato.
Il regime di apartheid lavorò duro per tenere chiuse le sue frontiere. […] Ai bianchi si diceva che se avessero lasciato entrare i neri dei paesi confinanti, questi si sarebbero di certo uniti agli indigeni locali per tagliargli la gola. Allo stesso modo, ai neri veniva detto che gli africani oltreconfine vivevano come bestie, che si facevano comandare da despoti e governare dalla magia nera.
Finito l’apartheid, doveva finire anche il timore per gli sgozzamenti e le pratiche voodoo. E infatti, la paura per l’Africa si è attenuata ed è stata rimpiazzata dalla lingua degli affari. Il mondo della finanza sudafricana si è “aperto” al continente e così la paura ha lasciato il passo all’interesse. Nei discorsi sudafricani, le nostre imprese sono “andate in Africa”. Proprio come pionieri di frontiera alla conquista del bush, si è cominciato a parlare in fretta di “investimenti e opportunità” per definire il rapporto tra il paese e il continente. L’ostilità pre-1994 nei confronti dell’Africa è stata rimpiazzata da un paternalismo ugualmente sconcertante. L’Africa ha bisogno di un salvatore e le “competenze tecniche” dei bianchi sudafricani sono solo la ricetta.
Tra i sudafricani neri, il copione è spaventosamente simile. Quando in Nigeria sono morti diversi pellegrini sudafricani per il crollo del tetto di una chiesa, un commento che si sentiva fare per radio o in tv era perché mai avessero cercato dio in un paese che dio aveva dimenticato.
Ora che siamo in democrazia, l’astio per l’Africa si è trasformato in un rozzo sciovinismo eccezionalista. I sudafricani sono veloci nell’asserire che gli “africani” non gli dispiacciono. È solo che siamo unici. La nostra storia, la nostra società è troppo diversa dalla loro per consentire paragoni sensati. […] Questa idea che noi sudafricani abbiamo vissuto un’esperienza particolare, che l’apartheid sia stata un’esperienza unica che ci ha reso diversi da chiunque altro al mondo, in particolare dagli altri africani, riveste un ruolo importante per capire l’approccio del sudafricano all’immigrazione.
La ricercatrice NahlaVahlji ha sottolineato come il nazionalismo abbia favorito il legame di appartenenza tra i cittadini sudafricani, in opposizione con tutto ciò che sta al di fuori dell’identità nazionale. Bianco o nero che tu sia, il trauma di aver attraversato l’apartheid è visto come un’esperienza che diventa esclusoria; ci ha fatto diventare una nazione.[…] Con l’aiuto e la facilitazione della Truth and Reconciliation Commission e di quella visione discorsiva di “nazione arcobaleno”, i sudafricani non sono riusciti a creare una cornice di appartenenza che vada oltre l’esperienza dell’apartheid, nonostante siano passati vent’anni.[…]
La nozione di un Sudafrica separato dall’Africa è profondamente radicata nella psiche che il nuovo Sudafrica ha ereditato nel 1994 ma risale indietro nel tempo. Potrei citare l’Aliens Actdel 1937 che aveva l’intento di attirare immigrati graditi che nel testo di legge venivano definiti “di origine europea perché facilmente assimilabili al resto della popolazione bianca del paese”. La legge è rimasta in piedi fino al 1991, anno in cui il National Party, ormai agonizzante, tentava ancora di proteggersi dal prevedibile “diluvio” di africani barbari e/o comunisti. L’Aliens Control Act del 1991 ha cancellato il riferimento offensivo agli “europei” ma ha mantenuto intatta l’architettura esclusiva della legge.
Come risultato, quando il nuovo Sudafrica ha visto la luce, il vecchio stato è rimasto fermo al suo posto, a controllare i confini dalle minacce al di là del Limpopo, come aveva sempre fatto. C’è voluto un decennio prima che il Bill on International Migration entrasse in vigore, nel 2003, ma anche qui si possono rintracciare alcuni elementi critici del vecchio modello. I membri dell’ANC alla guida del paese hanno in qualche modo fatto propria l’idea che gli immigrati fossero una minaccia per la sicurezza. L’immigrazione ha continuato a essere letta in chiave di strategie di contenimento e non come una possibilità di crescita economica. […]
Nessun esponente del governo attuale sembra rendersi conto che il Sudafrica post-apartheid è un luogo di ricezione per i flussi migratori molteplici che riguardano tutto il continente. Nessuno può relazionarsi all’Africa senza fare i conti con la soggettività che storicamente ha rappresentato il Sudafrica e con la delusione che il Sudafrica libero ha significato nell’ultima decade.
Una parte considerevole del progetto panafricano – compresi i suoi fallimenti – immaginava un’Africa libera dalle catene del colonialismo. Il Sudafrica ha sempre ricoperto un simbolo iconico di questo immaginario. Robben Island e Nelson Mandela, le strade in fiamme di Soweto, il corpo massacrato nel sangue di Steve Biko: sono immagini che non appartengono soltanto a noi. Portano la pena e il dolore di un continente intero nella cui marcia verso l’autodeterminazione eravamo compresi, anche quando la nostra liberazione sembrava molto, molto lontana. Con l’invenzione del “nuovo” Sudafrica, l’importanza cruciale di una visione africana per noi ha perso di spessore. Abbiamo rifiutato di ammettere che siamo un elemento cruciale del progetto di autodeterminazione africana. Non riuscendo a vedere noi stessi in questa prospettiva, abbiamo negato a noi stessi l’occasione di farci sospingere, persino trasportare, dai sogni del nostro continente.
In un epoca in cui i confini si abbattono e diventano sempre più porosi al fine di incoraggiare gli scambi e i commerci, il Sudafrica introduce mille pastoie burocratiche per rallentare la mobilità dentro e fuori il paese. […] Il fallimento dell’immigrazione massiccia del Sudafrica è una tragedia sotto ogni punto di vista. Tanto per cominciare, i livelli spaventosi di violenza e intimidazione che devono affrontare ogni giorno i migranti africani in Sudafrica, sono una costante parodia della giustizia. Da un punto di vista più complesso e sfumato, il fatto che il Sudafrica rifiuti la sua identità africana è una tragedia di altro tipo. […] Disconoscendo il contributo africano al suo DNA, il Sudafrica rinuncia all’opportunità di essere più ricco, intelligente, cosmopolita di quanto non lo sia ora.
Abbiamo ancora l’occasione di aprire le braccia al continente. La finestra di opportunità che consenta ai nostri ospiti di appartenerci proprio come noi abbiamo potuto appartenere a loro è ancora aperta. Temo però che si stia chiudendo in fretta. (sisonke msimang – traduzione di valentina iacoponi)