Tonino Taiuti è un pezzo della storia del teatro napoletano. Esponente “involontario” della così detta nuova drammaturgia napoletana, Taiuti condivise con Antonio Neiwiller, Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Silvio Orlando e molti altri un periodo di grande fermento culturale della città. Attore, performer, studioso, musicista, sperimentatore, dopo oltre trent’anni di carriera, ancora oggi vive a Napoli, lavorando raramente nel circuito ufficiale e molto più spesso negli spazi off. Tornato dalla recente tournèe in Francia con Circo Equestre Sgueglia, di Raffaele Viviani con la regia di Alfredo Arias, prodotto dal Teatro Stabile Mercadante, in cui Taiuti interpreta la parte del tragicomico clown Bagonghi, alterna teatro (come attore, ma anche come regista, come i due studi su Petito e Scarpetta che ha diretto al Teatro Arcas ) e musica; lo scorso 24 aprile ha suonato al Lido Pola di Bagnoli col suo progetto noise, in terzetto con Maurizio Argenziano e Dario Fariello. Rimandiamo da qualche tempo quest’incontro. Occhi vispi e tono di voce profondo e pacato, ci sediamo a un bar di Piazza Bellini per una lunga chiacchierata.
Come hai iniziato a fare teatro?
Io venivo dalla strada. Erano gli anni delle piazze, dei capelli lunghi, ero un figlio dei fiori… C’era Antonio Neiwiller che doveva fare uno spettacolo e gli servivano degli attori. In precedenza avevamo fatto, due o tre di noi, uno spettacolo di teatro e lui ci vide e mi scelse per uno spettacolo che doveva fare con gli Osanna, un gruppo progressive rock di quegli anni: fecero un’opera rock che si chiamava Palepoli dove io dovevo fare Pulcinella. Era uno spettacolo di mimo-danza, non proprio di teatro, loro suonavano e noi facevamo le coreografie. La regia era di Neiwiller. Diciamo che cominciai da lì; iniziai ad affezionarmi a questa maschera di Pulcinella e mi ci buttai dentro, istintivamente. Da lì nacque, sempre con Neiwiller, la messa in scena di Don Fausto di Petito (1975, ndr) e si sviluppò in me una grande passione. Però, stranamente, non per il teatro di tradizione, perché la tendenza dell’epoca era più per il teatro d’avanguardia – stiamo parlando degli anni Settanta e Ottanta – quindi, anche quando si affrontava la tradizione era sempre con un approccio contemporaneo, di sperimentazione. Mi trovai catapultato, senza saperne niente, nel teatro dadaista, nel teatro futurista, nelle avanguardie storiche. Allo stesso tempo, avevamo questo patrimonio del teatro napoletano, c’era questa tradizione che incombeva su di noi. Senza che noi volessimo, ogni tanto usciva fuori qualcosa che ci portava dentro la tradizione. Dopo il Don Fausto di Petito, lavorai con Renato Carpentieri, poi con Silvio Orlando. Io e lui lavoravamo con Neiwiller, ma avevamo anche questa passione per la comicità, che allora era vista come una cosa un po’ troppo leggera. Con Silvio ci mettemmo insieme e formammo una coppia comica, scrivemmo e montammo diversi spettacoli.
Tu non avevi studiato, sei un autodidatta.
No, ma non era l’epoca: non esistevano le scuole, la nostra scuola era andare a teatro, guardarlo in televisione, magari quando Eduardo faceva le sue commedie. Io non ho deciso di fare l’attore, è il teatro che mi è venuto incontro. Poi non era l’epoca in cui si facevano progetti, come oggi. Facevamo teatro perché volevamo fare teatro, non per il successo, né per fare carriera. La cosa principale era la passione che ci univa, anche perché facevamo un teatro talmente fuori dai canoni e fuori dai circuiti ufficiali, che non era pensabile di poter realizzarsi facendo quello, anche se noi lo facevamo fino in fondo, non c’era un minuto della giornata che non si vivesse per quella cosa lì, per quella passione lì. Era molto diverso. Oggi mi sento quasi… non so come spiegarmi, sai, quando uno è di un’altra epoca: un superstite.
Ritorniamo sulla questione del rapporto con la tradizione. Come lo intendeva Neiwiller?
Anche Antonio era un grande appassionato, un curioso, un amante del teatro di tradizione. Lui amava Viviani, Eduardo, tra di noi era quello che lo aveva visto a teatro. Aveva in sé entrambi gli aspetti: è stato un grande maestro, non volendo; da lui ho appreso la lezione della tradizione. Era una cosa che mi apparteneva, che già avevo dentro, però lui mi ha dato l’input per conservare tutti e due gli aspetti: essere un uomo moderno, della contemporaneità e avere dentro un mondo antico. Anche Antonio era cosi, però aveva una grande difficoltà sul parlato. Gli rompevano le scatole, dicendo che non era un attore di parola, mentre per me aveva un grande – non voglio chiamarlo stile, perché non mi piace la parola –, aveva una grande personalità che nessuno, o pochi, capivano. Questo era uno dei suoi aspetti interessanti: man mano ha abbandonato la parola, entrando nell’essenza del teatro. È stato molto coraggioso. Si veniva dagli anni della post-avanguardia, da tutta quella corrente del teatro senza parola. Lui portò quell’aspetto postmoderno in un’altra dimensione, estremamente teatrale, più vicina a Kantor, a questo teatro d’immagine, quasi un teatro cinematografico.
Qualche mese fa, in occasione del secondo studio su Petito e Scarpetta (Nu Petito dint’a Scarpetta al teatro Arcas) mi dicesti che, paradossalmente, andando avanti, sei diventato uno studioso della tradizione.
Sì, e studiandola ti accorgi che dentro c’è tutto. È un mondo pieno, come si fa a descriverlo… è come se tu volessi spiegare l’artigianalità che c’è in un ebanista: lo si deve fare per capirlo. Molto spesso penso questo, rispetto al teatro da cui sono attratto. C’è un modo di vedere le cose, oggi, che a me non piace. Non m’importa di andare a teatro e vedere la storia, a volte vado a teatro e quando esco sento parlare solo della storia, della trama, di cui magari non ho capito niente. A me interessa la forma… ma, in fondo, neanche quella. M’interessa l’umore, le sensazioni: questo come fai a spiegarlo? Per questo Neiwiller aveva capito molte cose, perché stava in quest’altra dimensione. Era un curioso, come lo sono io, come lo era Renato Carpentieri, aveva delle istintività forti.
Come influì il terremoto sulle vostre vite e sul vostro modo di fare teatro?
Mi ricordo che quando venne il terremoto noi stavamo in uno spazio a provare Aspettando Godot : io, Silvio Orlando, Antonio Neiwiller e Marco Manchisi. Stavamo cercando di mettere in scena questo spettacolo e il terremoto interruppe tutto, perché lo spazio poi non fu più praticabile. Ci mise in un disagio totale, anche con la storia del Teatro Nuovo, che fu per un periodo inagibile; allora ci mettemmo con una baracca in via Roma, sopra c’era scritto “Teatro Nuovo” e da lì dentro facevamo brani teatrali, con Silvio, Renato Carpentieri… Le cose si facevano.
…nonostante mancassero gli spazi. Com’era la situazione allora e come la vedi oggi?
Noi negli spazi ufficiali non ci siamo mai entrati. Un San Ferdinando, un Bellini, un Mercadante te li sognavi – anche adesso, io non ci entro. Erano spazi per compagnie che già avevano il loro mercato… non è cambiato niente, il pubblico non si è proprio educato. A Napoli, e in generale in Italia, il pubblico quando va a teatro è come se si mettesse su un piedistallo e dicesse: vabbè, fammi vedere che sai fare. Altrove è diverso, per esempio in Francia. Qua veramente non capiscono niente. Il pubblico forse istintivamente capisce, ma gli addetti ai lavori, i giornalisti… non sanno niente. Soprattutto, oggi vedo un’enorme quantità di critici con cui non mi trovo quasi mai d’accordo – poi, può essere che il problema sono io. Il problema, in tutte le forme d’arte, è che non c’è più una critica storica.
Fai parte di Circo Equestre Sgueglia, una produzione dello stabile Mercadante dell’anno sorso e che quest’anno è stata ripresa e ha riscosso successo anche in Francia. Poi però le cose tue le fai negli spazi piccoli, lontano dai riflettori (penso a Nu Petito dint’a Scarpetta o ancora di più Play Duett, un particolarissimo lavoro in coppia con Lino Musella con testi di Petito, Shakespeare, Eliot, Viviani). Parliamo di questa tua doppia indole.
È un destino, una natura; non mi accontento, sono un bicchiere che strabocca, ho sempre curiosità diverse, anche con l’arte, la pittura, la scrittura. Stare sempre con le mazzate sulla schiena pesa, ogni tanto una rinfrescata ci vuole, fa bene alla salute, soprattutto se è Viviani… Ci sono due aspetti che ritornano sempre, in me: uno è la maschera di Pulcinella, l’altro è Viviani, è come se fossero la mia persecuzione. A volte sono saturo di queste due componenti e vorrei passare ad altro. Però non c’è niente da fare, fa parte del mio destino, ogni tanto mi capita che Viviani mi riacchiappi per le orecchie e così la maschera di Pulcinella. E poi, alla fine, ne sono contento: io adoro Viviani. Penso che sia uno dei più grandi poeti del Novecento, oltre a essere il più grande drammaturgo napoletano. Nella sua scrittura, c’è una vita, una profondità, non soltanto dietro le parole, ma nei suoni delle parole. Quelle cose lì o ce le hai dentro, o le hai vissute, o le acchiappi perché hai un istinto, altrimenti ne rimane solo la forma. Quando recito Viviani sai che faccio? Mi metto dietro le quinte e ascolto gli altri; a volte, quando lo leggo sulla pagina, non mi accorgo di certe cose, però quando lo sento recitare ecco che qualcosa mi colpisce. Quelle stesse parole le ho lette centomila volte sulla pagina ma non mi sono entrate così feroci, così belle come mi entrano quando invece le sento recitare. Non quando le recito, quando le sento recitare e sto dentro lo spettacolo. Se vado a vedere uno spettacolo di Viviani, mi metto nell’ottica dello spettatore ed è un altro approccio, un altro modo di entrare nella scrittura: hai una visione esterna. Invece quando sei all’interno e ascolti mentre non sei in scena è diverso. Fortunatamente, mi è capitato negli ultimi anni di fare dei Viviani dove non sto molto in scena e ho potuto godermi questo autore che veramente. Io ogni mattina mi faccio la croce e penso a lui.
Ci sono altri autori che vorresti affrontare e non l’hai ancora fatto?
È un periodo che non riesco a staccarmi dalla lettura di Beckett. Di recente, in Francia, ho visto uno spettacolo con una donna che faceva tre monologhi di Beckett, con un pubblico attentissimo, che alla fine è impazzito. Beckett è il teatro. Shakespeare si può considerare il maestro per un teatro antico, Beckett per il contemporaneo. Molte volte sento dire: ma Beckett è pesante, è noioso… e allora che volete? Siamo troppo abituati alla televisione che, per certe cose, va benissimo: penso che i comici della televisione siano gli unici comici della commedia dell’arte moderna, perché ne hanno tutte le caratteristiche: improvvisano, vanno avanti a canovaccio, però…
Parlando invece di teatro oggi, tu lo frequenti, ci vai, c’è qualcuno che ti piace, che sperimenta qualcosa di nuovo?
Prima non ci andavo, adesso ho ricominciato ad andare a teatro. Per esempio, di recente ho visto lo spettacolo di Lino Musella e mi è piaciuto. (La società della compagnia Musella- Mazzarelli è andato in scena di recente al teatro Bellini, ndr). Io ho un odio-amore per il teatro. Il teatro è un’arte pura, non si può mistificare. Oggi si mistifica molto. Chi lo sceglie come mestiere rischia grosso, ci sono dei meccanismi che, se li rifiuti, fai capa e muro. Ti avveleni lo stomaco… Sperimentare è avere la possibilità di lavorare su cose su cui magari non è facile lavorare. Per esempio, prendere un autore come Beckett, o come Pinter, e avere la possibilità di farlo così com’è, com’è scritto, e poi secondo il proprio modo di vedere. Sperimentazione per me è pure prendere un Petito e farlo così com’è. Bisogna tornare al teatro povero, alla Grotowski, il teatro si può fare con poco, invece di farlo con sfarzosità e denari. Io non voglio sorprendere nessuno, io faccio le cose per me, poi se piacciono agli altri, bene.
Tu sei anche musicista…
Sono un musicista, tra virgolette. Sono sempre stato un appassionato, un curioso, un fanatico della musica. Ho formato un gruppo di ascolto negli anni Settanta e Ottanta: la mattina ascoltavamo musica contemporanea classica e il pomeriggio free jazz, passando anche per cose tradizionali. Eravamo molto, molto settari. Non sentivo altro. Io vengo dal rock: Hendrix, Rolling Stones, i Genesis di Peter Gabriel. Poi la curiosità mi ha portato al jazz, al free jazz, alla contemporanea, sempre con quest’intenzione di andare oltre, quindi dopo sono passato al noise e all’improvvisazione totale. Suono la chitarra sia elettrica che acustica, è una passione secondaria, ma per me vitale; ho un duo con Maurizio Argenziano, che fa parte di un gruppo che si chiama Aspirale. Abbiamo cominciato insieme, però io poi sono stato per un periodo abbastanza lungo per conto mio a suonare da solo, adesso stiamo ricominciando a fare delle cose, come la session di qualche giorno fa col violinista giapponese Junichi Usui (che ha suonato lo scorso 26 aprile da Perditempo a Napoli, ndr), ci sono questi scambi anche con musicisti internazionali che vengono qui per niente, basta che gli paghi il viaggio. Questo mi ricorda molto quel periodo del teatro di cui parlavamo prima, qua non c’è denaro, non c’è niente, c’è solo la passione, la voglia di fare, non è la carriera che uno vuole fare, né mestiere che si può fare per vivere, quindi devi fare un lavoro e poi puoi fare anche quello.
Sono sempre stato amico di tanti musicisti napoletani, anche molto bravi, molto tecnici, ma quando ho iniziato a vedere che si poteva suonare senza saper suonare, ho detto: questo è quello che cerco! A me interessa soprattutto la musica come materia plastica, come se fosse argilla che si modella, come potrebbe farlo un bambino. Non m’interessa il tecnicismo, le note: mi annoiano. Per esempio, quando andavo a sentire i concerti dei miei amici che suonavano rock, quando il chitarrista metteva il jack nell’amplificatore e immediatamente c’era quel suono che non riesci a governare e dopo aver regolato i volumi si cominciava a suonare… quello è il momento che m’interessa, quello è diventato la mia musica. È una musica che serve soprattutto a chi la fa. È come quando John Cage ha fatto il 4’33’’ o il piano preparato: gli tiravano i coppetielli appresso. È un po’ come i silenzi di Beckett. Ecco, per ritornare a Beckett, quando qua si fa Beckett – se si fa – non si ha il coraggio di andare fino in fondo. I teatranti, gli attori, tutti – e su questa barca mi ci metto pure io – abbiamo paura di non avere il consenso immediato del pubblico. Quando tu cerchi sempre quello, è difficile entrare in una dimensione diversa, in cui questo consenso non c’è. Si cerca la risata, l’applauso… Stamani leggevo un romanzo di un autore russo, Erofeev; lui dice: ma io non ho voglia di scherzare, non ho voglia di far divertire, io non ho voglia. Questo a teatro non si può fare, a teatro devi divertire. Ultimamente sto pensando una cosa: voglio fare un lavoro musicale e teatrale insieme per un solo spettatore, che però si può ripetere nella stessa serata tre o quattro volte. Me ne basta pure uno, non m’importa delle folle. (francesca saturnino)
By TEATRO ARCA'S May 2, 2015 - 10:03 am
Buon giorno,
volevamo farvi i complimenti per l’articolo,ma non perché interessa un artista che anche noi,evidentemente ammiriamo e a cui siamo emozionalmente legati. Il fatto che un giornale,una giornalista,possano interessarsi ad un vero artista,perché tale e non perché fa audience,è ammirevole. Questo dovrebbero fare quelli che parlano di divulgare cultura,andare a cercare “quella degna” di essere definita tale. Divulgare,fare conoscere a tanti, attori come Taiuti,non può che fare bene alla “cultura” napoletana,che tanto ne ha bisogno,ma anche all’Italia tutta,che non mi pare stia vivendo un momento storico molto brillante in tal senso. Riportare alla luce il vero talento. Grazie per averlo fatto.
Marcello Raimondi