Sabato 23 maggio la signora Maria Mercurio, di cinquantatre anni, muore all’interno di un’ambulanza non medicalizzata in attesa dell’elisoccorso che avrebbe dovuto trasportarla in ospedale. Dal 27 aprile l’ospedale di Giarre (il pronto soccorso, il reparto anestesia, la cardiologia, il centro analisi, eccetera) è stato chiuso, rientrando in quel piano di rifunzionalizzazione voluto dall’assessorato regionale alla sanità e dall’azienda sanitaria provinciale che sta interessando tutta la regione attraverso tagli, accorpamenti, chiusure di presidi ospedalieri e singoli reparti. Soltanto a Giarre, a trenta giorni dalla chiusura, ci sono stati due morti che hanno interessato la magistratura, mentre tra le voci della gente il conto dei decessi per malasanità si allarga a quattro persone. Alla morte della signora Mercurio i familiari sono scattati in un moto di ira e di rivolta danneggiando l’ambulanza e organizzandosi nell’immediato per occupare i binari della stazione ferroviaria della città. Hanno tenuto un blocco per tre giorni, impedendo di fatto il transito dei treni e conquistando uno spazio di cronaca che è presto divenuto anche di mediazione politica.
Siamo andati a Giarre lunedì 25, nel pomeriggio. I blocchi erano stati smobilitati, senza scontri, da un nutrito gruppo di polizia e carabinieri, accompagnati da unità delle celere in tenuta anti-sommossa. A occhio si direbbe che tra uomini in divisa e in borghese, fossero presenti un agente per ogni due manifestanti. La giornata si è svolta nell’attesa dell’esito di un incontro che contemporaneamente aveva luogo a Catania tra i sindaci dei comuni utenti dell’ospedale di Giarre, l’assessore Borsellino e le varie dirigenze, del 118, dell’Asp. Intorno alle 19 l’arrivo del sindaco ha portato la notizia del ripristino dei servizi allo stato precedente alla chiusura con alcune disposizioni transitorie per il periodo estivo. Una vittoria a metà che non accontenta tutti e lascia molti con la rabbia in corpo.
A colpirci particolaramente sono stati i familiari della signora Mercurio, figlia insieme ad altri diciannove fratelli (in tutto dieci uomini e dieci donne) di una donna forte, ancora in vita, presente alla stazione e, in qualche modo, simbolo della protesta. È la prima volta che ci capita di assistere a un lutto che non si rinchiude nel privato o nella disperazione, facendosi invece pretesto per una rivendicazione di un diritto collettivo. La signora ci tiene a sottolineare che non lotta per sé, ma per tutta la comunità. Anche gli altri suoi figli, i nipoti, alcune cognate, sono presenti tra i binari e la sensazione che registriamo è che qui un blocco familiare numeroso ha trovato in questa sua caratteristica la forza di una reazione immediata, sia fisica che morale, senza alcuna contorsione religiosa di implosione interiore, ma una fiera e pubblica reazione. A loro si sono associati, con i loro corpi e la loro presenza, altri uomini e donne delle fasce più povere, gli sfrattati, gli assegnatari delle case popolari senza chiavi, i disoccupati. La borghesia, quella politica e quella economica, latita, ancora una volta dalla “protesta dei villani”.
Sui binari, la rabbia è molta, la consapevolezza complessiva poca. Quando chiediamo, a giovani e meno giovani, cosa ne pensano della Sicilia, o quali siano a loro parere i problemi più seri, le risposte si fanno troncate e limitate alla sola questione del loro ospedale, non spuntano critiche sulle strade al dissesto, sulla disoccupazione, sulla corruzione o l’arrivo dell’emergenza rifiuti sotto il caldo estivo, al massimo ogni chiosa, pericolosamente, come raramente ci era capitato di sentire con tale insistenza, è sugli immigrati che ognuno con parole sue vorrebbe a casa loro, quando non silurati direttamente in mare. Anche in questo caso aggiungendo elementi a questi confronti, dialogando a fondo, circostanziando la questione, evidenziando la corruzione e la mafia che specula su questa emergenza, l’immigrato si avvicina e il nemico torna a essere “il politico e l’istituzione”. Qualcuno nei primi giorni ha gridato dalla stazione “Stato di merda!” e il coro delle prime ore è stato “Assassini! Assassini!”. Questo spazio sociale in cui tutto manca e che viene così tenuto ai margini, ha tutto il potenziale per rappresentare, come ha fatto, un corpo politico di ribellione che oggi cova dappertutto sull’isola siciliana.
A fine serata, un bambino di dodici anni circa piange appoggiato al petto di un giovane con la maglietta nera. Facciamo le condoglianze e chiediamo se fossero parenti. Il più grande ci risponde di sì e il ragazzo si ritrae un poco. Senza pensarci troppo gli diciamo di essere orgoglioso nel suo dolore: al nome di sua nonna, Maria Mercurio, morta per mano della sanità di stato, sarà legato il ricordo di questa battaglia.
Torniamo a casa con alcune annotazioni, riprese e foto che archiviamo per documentare una stagione di proteste che a nostro parere è soltanto iniziata e che seguiremo e che ha alla base la rivendicazione del diritto pubblico alla vita. (malastrada-mmav / museo mediterraneo di antropologia viva)