Esiste una politica dei porti in Europa? Potrebbe, dovrebbe, ma purtroppo non esiste. E per un motivo semplice: la politica portuale europea è un surrogato, un’emanazione indiretta dei progetti di finanziamento provenienti dalla Banca centrale europea. Questa è l’opinione degli accademici, degli architetti e dei sociologi, che poco traspare nei circoli istituzionali né, tanto più, nella retorica della comunità portuale.
Nel Vecchio Continente c’è una forte politica economica – il negoziato di questi ultimi mesi tra Ue e Grecia ne è il paradigma – ma non una politica interstatale, militare, sociale, urbanistica e, infine, portuale. Ma quale dovrebbe essere una politica portuale europea? Qualcosa che prenda a modello i porti più grandi, quelli del northern range, o un sistema che lasci ai singoli stati la propria portualità? Ne abbiamo parlato con il sociologo del lavoro Salvatore Maugeri, professore all’Università di Orlèans ed esperto di trasporto e flusso delle merci.
Professore Maugeri, esiste una politica europea dei porti?
Non credo. C’è soltanto la Banca centrale europea, da cui provengono i soldi per finanziare le infrastrutture, ma questo non basta per realizzare una politica europea dei porti. D’altronde, che senso ha parlare di una politica comune, cioè di uno sforzo unico per vincere nella competizione mondiale, quando siamo di fronte a un’entità eterogenea, con culture e storie così diverse, e in lotta continua al suo interno? Prima di parlare di politica comune, in qualsiasi settore dell’economia, anche portuale, bisognerebbe prima chiarire il concetto di comunità europea. Se il principio di base è quello della competizione di tutti contro tutti, com’è possibile immaginare uno sforzo coordinato e collaborativo?
Cosa manca?
Un’idea chiara di cosa sia un’associazione tra paesi. Abbiamo piegato tutte le leggi a quella dell’arricchimento di una minoranza, pensando che questa logica portasse con se un miglioramento della situazione di tutti gli altri. È chiaro ormai che questa strada è sbagliata. La crescita del Pil non c’è più. La disoccupazione è diventata la piaga principale della nostra società. Ci manca un orizzonte non solo economico, ma ho voglia di dire escatologico: che fine farà l’umanità? La politica portuale è una sottocategoria di questo tipo di problematica. Così non c’è da meravigliarsi nel constatare la carenza di una politica comunitaria sui porti. Comunque sia, direi che una strategia comune di tipo europeo per i porti non significherebbe gestire i porti allo stesso modo, ma identificare alcuni modelli a seconda della situazione geografica, sociale, storica, culturale dei singoli paesi.
Ovvero?
C’è una dimensione che è sempre stata trascurata: quella delle specificità del singolo paese. Non è possibile creare un’unica governance portuale di tipo europeo trascurando le identità portuali dei singoli stati. Non si può snaturare la portualità statale in nome di un’astratta, perché puramente economica, “politica europea dei trasporti”. Si prenda la portualità anseatica, che è di tipo municipale, e per una ragione: i porti sono pochi e hanno avuto la possibilità di crescere. Ma lo stesso modello non si può applicare in Francia o in Italia, dove i porti sono molti di più, i paesi stessi più estesi e popolosi, e di conseguenza la merce da spartire più preziosa. È chiaro che ormai i porti delle coste del Nord Europa sono in grosso vantaggio. Molta merce francese, italiana, austriaca, svizzera, arriva da lì invece di seguire le strade più corte e arrivare direttamente nei paesi di destinazione finale. Bisognerebbe ridisegnare i flussi in base ad altri criteri che quelli meramente economici. Vogliamo creare in tutti paesi europei una Rotterdam, un’Anversa, tirando ognuno dalla sua parte, in una lotta a morte? Sarebbe un incubo, ambientale prima di tutto. Questi fattori devono essere considerati in primo luogo in una prospettiva occupazionale. Dietro questi problemi c’è sempre la stessa domanda: che tipo di cittadinanza, che tipo di società vogliamo? Questo tipo di impostazione concettuale basterebbe per rendersi conto che bisogna smetterla di paragonare Nord Europa e Mediterraneo come aree che dovrebbero offrire lo stesso tipo di portualità.
Mi sembra di dedurre che portualità francese e italiana hanno qualcosa in comune…
Si somigliano. In entrambe le authorities hanno comitati portuali e revisori dei conti, organi politici, organi esecutivi e di consiglio, ed entrambe soffrono del conflitto di interessi che caratterizza i comitati. In Francia lo spazio portuale (place portuale) è un po’ meno atomizzato che in Italia, grazie a rappresentanze più coese come le uniones maritimes degli operatori commerciali, più efficaci dell’Italia a federare le forze locali per realizzare progetti comuni, per esempio nelle infrastrutture informatiche. Al contrario a Genova, uno dei porti italiani che conosco meglio, l’informatizzazione del porto è stata avviata su iniziativa della sola autorità portuale, ed è merito di questa se alla fine la rete degli operatori è coesa, sia burocraticamente che economicamente, attraverso un progetto unico: l’e-porto. Ma detto questo, sia in Italia che in Francia non c’è armonizzazione tra le strategie dei singoli porti, anche se stanno spuntando dei progetti interportuali, tra cui il più maturo è quello di Haropa, un’associazione tra i porti di Le Havre, Rouen e Parigi. Questa mancanza di armonia genera una folle portualità regionale, scollata da quella nazionale. Tutti vogliono essere i primi nei container, senza chiedersi quale sia il traffico più adatto per il proprio porto e quale debba essere il volume sostenibile di merce in transito. Vogliamo il porto di Genova e Napoli grandi come quelli di Amburgo e Rotterdam? Sarebbe questa la migliore soluzione per l’Italia?
Di cosa avrebbe bisogno il nostro paese?
Probabilmente, come dicono in molti, di una certa autonomia finanziaria, cosicché le autorità portuali siano in grado di condurre progetti di sviluppo decisi dalla comunità, senza però abbandonare un disegno nazionale della portualità. I porti virtuosi devono sicuramente essere premiati, sennò sprechiamo i finanziamenti.
Ma così si creano porti di serie A e B.
No, se si mette in piedi un meccanismo di perequazione per aiutare i più piccoli. In Germania, per esempio, i Lander non portuali hanno l’obbligo di contribuire al finanziamento dei Lander portuali per lo sviluppo dell’economia del mare. Insomma, c’è bisogno di solidarietà e di un minimo di programmazione nazionale. Ma per far questo bisogna centralizzare la politica portuale, creando rappresentanze in seno al governo e dando agli organi politici i mezzi per realizzare i progetti pianificati. Il grosso problema dell’Italia è che c’è tuttora un controllo centralistico dei finanziamenti, senza una visione globale, mirata al bene comune. I soldi si sprecano e si disperdono in modo clientelare, rendendo impossibile una politica razionale dei trasporti. In sintesi, direi che la gestione dei porti dovrebbe essere regionale, con una regia nazionale pensata in funzione dell’interesse generale, e non delle singole categorie.
Un modello regionale e centralizzato.
Esatto. Lo stato governa, ma la gestione dei fondi è localizzata in base a certi indicatori di efficienze da stabilire collegialmente, altrimenti i soldi si sprecano. E questo, nessun cittadino è disposto a sopportarlo. (paolo bosso)