Anche se la loro presenza aleggia in gran parte della nuova drammaturgia prodotta in questi anni, è sempre più raro che qualche compagnia si faccia carico di portare in scena lavori di Samuel Beckett o ancor meno di Harold Pinter. Sono autori che vanno poco di moda, forse soprattutto perché mettono attori e registi davanti a un piccolo abisso creativo/esistenziale che, in questi tempi di monoliti teatrali (vedi Cechov, Eduardo, Ibsen), spesso, invece di attrarre, spaventa.
Anche per questo, la ripresa del testo pinteriano Il calapranzi è stata una gradita sorpresa, fuori dalle stagioni teatrali ormai in pausa estiva e dal festival appena concluso in città. Sul palco del teatro Antonio Niccolini dell’Accademia di Belle Arti, l’allestimento curato e minimale degli allievi dell’Accademia: una grande distesa di bianco, pochi elementi tra cui comodini e due letti al centro della scena, in contrasto col fondo scuro e claustrofobico di specchi nel cui centro trionfa la botola, anch’essa bianca, del “calapranzi”, traduzione dell’espressione “dumb waiter”, che dà il titolo all’opera. Sulla destra, Agostino Chiummariello nei panni di Ben, è steso serafico sul letto, a leggere un giornale. A sinistra, Tonino Taiuti/Gus, nervoso e irrequieto, si muove da una parte all’altra, tra la piccola stanza e la cucina nella quinta attigua, senza trovare pace. Entrambi indossano un completo gessato scuro, sbarbati, con le scarpe allacciate, come in procinto di uscire.
A un breve intro jazz-lounge che ricorda vagamente l’attacco di Glory Box dei Portishead, segue una lunga pausa muta di pose “fotografiche” che ci fa lentamente calare nel mood della scena, prima che i due inizino un insolito e surreale scambio di battute. Curiosi fatti di cronaca riportati sul giornale, commenti sulla stanza che li ospita, una discussione di natura semantica sull’espressione “accendere il gas”: Ben e Gus ammazzano il tempo (oltre che, come poi scopriremo, persone) in un non luogo sospeso e chiuso, in attesa di ricevere un fantomatico “ordine di esecuzione” dal capo Wilson che non vedremo mai. Tra i due v’è un dislivello emotivo e psicologico, oltre che, probabilmente, gerarchico: Ben è una perfetta e funzionale ruota dell’ingranaggio, mentre in Gus qualcosa si è incrinato per sempre, aprendo una voragine che divorerà entrambi. L’azione si velocizza quando, improvvisamente, la botola bianca sul fondo della scena si apre, recapitando ordinazioni di cibi e bevande sempre più improbabili ed esotiche: da qui, tutto precipita in un comico, straniante e apparentemente incomprensibile nonsense, fino al sorprendente finale aperto.
Messo in scena per la prima volta nel 1959, Il calapranzi fa parte della primissima produzione di Harold Pinter (assieme a Il compleanno e La stanza) che porta con sé non pochi influssi beckettiani: in particolare, proprio questo testo richiama, in più punti, dinamiche e suggestioni di Aspettando Godot. È una scrittura in cui non è facile entrare; paradossalmente è proprio la sua apparente semplicità a trarre in inganno. I tempi sono calibrati, elastici; le pause vitali; gli scambi verbali secchi e tirati, come frecce sparate nel vuoto. Una sorta di drammaturgia diesel che carbura e gradualmente si carica, per poi arrivare a scoppi detonati, stoppati, bruscamente interrotti. Un equilibrio sul filo che l’affiatata coppia Taiuti/Chiummariello riesce a costruire e a calibrare ancora meglio soprattutto verso il finale, tant’è che quando lo spettacolo finisce restiamo tutti un po’ sospesi, come se ne volessimo ancora.
Va detto che due sole repliche sono poche per un lavoro del genere che ha bisogno di crescere di sera in sera, sul palco e con la platea. In mezzo a un mare di spettacoli improbabili in stile Gomorra (che, sì, ha contaminato anche il teatro, ne sono un esempio alcuni dei lavori nella sezione fringe di questo Napoli Teatro Festival), la scrittura sottile e raffinata di Pinter ci fa tirare un sospiro di sollievo. «Questo è un testo con cui noi attori, prima o poi, vorremmo tutti confrontarci – dice Taiuti – l’unica possibilità per farlo in questo momento era all’Accademia, essendo una scuola con un teatro per cui non c’era la necessità di una produzione. Non so se avrà un futuro. Lo spero. Ma l’importante per noi era farlo». Chiummariello aggiunge che «forse l’aspetto più interessante del lavorare qui è proprio la costruzione delle scene con gli allievi: non sono fatte, come la maggior parte degli spettacoli, a scatola chiusa, ma è un lavoro di confronto collettivo tra tutti, crescono con lo spettacolo».
Il calapranzi è inserito nella rassegna annuale dell’associazione “Aula 105”, col patrocinio morale dell’Accademia di Belle Arti; l’anno scorso c’è stato un focus sul tema della maschera da cui partì lo studio su Petito in cui s’inserisce anche Nu Petito dint’a Scarpetta; questo è il secondo anno di attività. L’obiettivo a lungo termine è di fare dell’Accademia – dove sono attivi corsi di scenografia, regia, fotografia – una fucina creativa che interagisca, produttivamente, con la città. E proprio in questi giorni lo spazio Niccolini dell’Accademia ospita un (raro) workshop di danza contemporanea tenuto da Dominique Mercy, uno dei membri storici della Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch. (francesca saturnino)
Il calapranzi
di: Harold Pinter
regia: Tonino Di Ronza
con: Tonino Taiuti e Agostino Chiummariello
scene e costumi: Emanuela Ferrara, Simona Guarino, Angelica Simeone, Lucio Valerio
luci: Cesare Accetta
co – produzione: Associazione Aula 105 e Accademia di Belle Arti
in scena: 24 e 25 giugno presso il teatro Antonio Niccolini dell’Accademia di Belle Arti di Napoli