Il teatro di Claudio Tolcachir, autore, attore, regista e drammaturgo, nasce intorno al 2001, in una fase drammatica della crisi economica e sociale dell’Argentina. Tolcachir chiama “Timbre4” il suo teatro, la cui sede è ubicata accanto alla sua abitazione di Buenos Aires; l’intenzione del regista attore è di trasformarla in un laboratorio aperto a chiunque intende condividere la gioia di riscoprire il teatro partendo dall’artigianalità del fare teatro. Il progetto ha un immediato successo di pubblico e la sua casa-teatro si trasforma, in breve tempo, in uno spazio collettivo che contrasta sfiducia e rassegnazione.
Il regista argentino imprime un preciso orientamento teatrale alla sua giovane compagnia. L’idea è di partire sempre dalla realtà – soprattutto dai problemi di deflagrazione del microcosmo familiare –, ma reinventandola con ironia e leggerezza sulla scena, all’interno di una drammaturgia in linea con i tradizionali canoni stanislavskiani fondati sul controllo assoluto dei meccanismi psicofisici volti a favorire “la via dell’attore verso il personaggio”. Uno dei momenti esemplari del suo teatro è, senz’altro, La omisiòn de la familia Coleman – lavoro che ha riscosso unanimi consensi in campo internazionale, visto qualche anno fa al Napoli Teatro Festival – che, forse, più di altre sue opere, parla con crudeltà dei riflessi della crisi nei rapporti umani e sociali del nucleo familiare.
Ora, Napoli Teatro Festival propone Dinamo – andato in scena al Teatro Mercadante e scritto da Tolcachir insieme con Melisa Hermida e Lautaro Perotti – una messinscena che se pur non raggiunge l’intensità drammatica delle precedenti pièce, è comunque di notevole interesse perché punta sull’invenzione creativa degli interpreti, mostrando lo spaesamento di una umanità che fa fatica a riconoscersi, ed è come divisa da muri invisibili, sempre in attesa che accada qualcosa nella quotidianità che ridia spazio alle illusioni e alla speranza di un mondo diverso.
In Dinamo, questo microcosmo senza tempo è una roulotte attrezzatissima – con cucina, bagno, credenza, armadi – che fa immediatamente pensare a quelle dei campi rom collocate ai margini delle nostre periferie metropolitane. Illuminata da fioche luci di emergenza, nella roulotte vivono in tre: Ada, Marisa e Harina. Ada è una ex cantante in cerca dell’ispirazione perduta, sempre chiusa in se stessa, raramente lucida perché da sempre dedita all’alcol; Marisa, nipote di Ada, è invece una ex tennista vissuta per molti anni in un ospedale psichiatrico in seguito a una sconfitta in un torneo e a un tentato suicidio dei genitori. Quando entra in questo spazio claustrofobico, cerca un contatto diretto con la zia; ma lei nemmeno la vede, persa come è nel ricordo dei momenti più belli del suo glorioso passato da performer. E anche quando inizieranno a parlarsi – in dialoghi di irresistibile comicità – sarà sempre più chiaro che difficilmente le loro esistenze potranno incrociarsi e comunicare le emozioni delle loro piccole storie; Harina – interpretata dalla bravissima Paula Ransenberg – infine, è la terza presenza; ma si tratta di una presenza-assenza in quanto vive da clandestina nella roulotte, nascosta nei suoi angoli bui – dalla credenza al tetto, ai mobili della cucina – da cui, improvvisamente, fuoriesce come un felino alla ricerca di qualcosa da inviare a suo figlio, per poi, velocissima, rieclissarsi nella sua tana domestica; nessuno la vede, Harina, che decide di farsi riconoscere solo quando avverte il pericolo di un incendio provocato da un gesto inconsulto di Ada.
Harina – col suo vitalismo e la sua parlata meticcia – è la chiave del testo di Tolcachir, il personaggio che dà un tocco magico, surreale e rivelatore, a tutta la piéce. L’impressione, infatti, è che per il regista argentino l’indomita volontà di sopravvivere di Harina a ogni forma di esclusione, sia un simbolo di resistenza, rappresentando nient’altro che l’anima di popolo (non solo argentino) che prova a uscire dal buio della solitudine reinventando ogni giorno la vita. (antonio grieco)