«‘O cazz’ ‘nculo sai qual è? Che s’addà pava’ ‘o biglietto! Io ‘ncopp’ ‘o pulmann nun ‘o facevo maje…. Però nun me ne fotte, io ‘o pavo, pecchè tengo ’o servizio. Ddoje minute e stong’ a piazza Borsa. Dint’a l’R2 ‘ncopp’ o Rettifilo, tutt’ surate, ‘a signora ca feteva. M’a facevo sempe a pere». Sembra passato un secolo da quando hanno aperto la nuova stazione della metropolitana a Piazza Garibaldi. «Uà fra’, pecchè tu pave ancora ‘o biglietto? A me m’hanno fatto passa’».
Ma io sono a Piazza Carlo III, che è ancora fuori da qualsiasi traiettoria di nuove linee metropolitane. Da qui c’è il 201 che mi porta a via de Pretis. Il ragazzo rom al semaforo. Lo guardo attentamente, come guardo le persone ferme in macchina. C’è chi aspetta, chi fa partire i tergicristalli, chi distratto non lo vede. Lui è un prestigiatore. Si butta sui parabrezza quando gli occhi sono incerti, quando ti è salito un pensiero, una preoccupazione. Allora lo guardi sconfitto, e gli dici, cazzo hai vinto tu. E gli dai la monetina. Mi vede lì da un po’ e mi saluta. È il quarto bus che arriva ma non mi vede salire. Pensa che lo stia controllando. Mi passa un paio di volte vicino. Lo perdo di vista. Il fuoco dei miei occhi entra nei finestrini.
È interessante la fermata del bus a ridosso di un semaforo. C’è una quantità di umanità che ti viene innanzi. La posizione nella macchina te li fa vedere tutti dall’alto. È una posizione un po’ strana, a dir la verità, una posizione goffa, di resa, di abbandono. E al semaforo lo si nota di più. Tutti guardano avanti, come se guardassero un grande schermo. Ogni viso ha un segno, ogni macchina a ben vedere ha lo stesso segno di chi la guida. Un po’ come quando vedi persone che somigliano ai propri cani, così le autovetture tendono a somigliare a chi li guida. Napoli, in un pomeriggio qualunque, è un posto come un altro. Una strada, un semaforo. Il ragazzo rom canticchia, sta pulendo un vetro posteriore, forse gliel’hanno commissionato. Scatta il verde, lascia un parabrezza a metà, pieno di schiuma. Si prende gli improperi del conducente, e a suo modo muove le labbra come a rispondere in uno «Sciav’l ‘catasratràt c‘amazz’ icà strunt!». Una sorta di preghiera, o forse un inno. Un piccolo aiku che vola nell’aria. Mi riguarda. Una signora anziana si avvicina alla fermata, come a dire qualcosa. Si siede, ma poi va via. A lato sento dire alcune parole, altre. E ancora cammino distante come a percepire quel pensiero.
Sono stato a piazza Garibaldi. Non è tanto male il nuovo progetto di Perrault della Linea 1 della metro. Certo, se non ci fosse quella copertura con i pali che sorreggono solo se stessi sarebbe meglio, ma il progetto ha le caratteristiche di una costruzione civile. Tutto d’un tratto l’operato di Bassolino mi è sembrato lungimirante. La costruzione di una metropolitana in una città come Napoli, aveva un’urgenza, e il pensiero è stato alto. La piazza esterna continua sulla quota sottostante con l’utilizzo della stessa pavimentazione in basalto. Le scale che scendono incrociandosi si mostrano in un solo colpo d’occhio, e nelle parti specchianti non si può non pensare alle incisioni di Piranesi. Poi penso alle difficoltà, ai soldi sprecati e al tempo perso. Ma Napoli non è Londra, non è Parigi, non è Barcellona. Quelle sono città piatte, città in pianura. La differenza di quota tra le fermata di piazza Municipio e quelle del Vomero è tanta. E considerando che la quota della linea ferrata deve essere tutta alla stessa altezza, se non con piccole variazioni, si capisce la mole di lavoro. E la sua complicazione.
A Barcellona parlo con Francisco. Un ragazzo colombiano che ci vive da quindici anni. Mi parla di Bogotà, io gli dico di Napoli. Parliamo della corruzione, mi dice che in Sudamerica quando iniziano una grande opera poi i soldi spariscono, e la grande opera si ferma. «La differenza con l’Italia e con l’Europa – mi dice – è che da voi anche se c’è corruzione poi l’opera la finiscono». Bah, se è solo questa la differenza, forse un po’ di Sudamerica è anche qui da noi. (daniele balzano)