A seguito di alcune richieste di precisazioni, comunichiamo ufficialmente che l’articolo che segue non è un testo realmente composto dal noto scrittore Maurizio De Giovanni ma un pezzo-fake, parte della sezione: “Gli articoli impossibili” a cura del rubrichista di Napoli Monitor, Pazzaglia.
Questura centrale, Napoli. 11 luglio 2014. Ore 19,00. Continuavano a guardarsi, in silenzio. Il questore li aveva lasciati soli, sperando rompessero il ghiaccio. Ognuno nella sua poltrona, davanti la scrivania. Non si piacevano, era evidente. Rappresentavano due mondi troppo diversi. Anzi a pensarci bene niente avrebbe potuto unirli, se non quell’aereo in partenza da Bogotà, e che dopo due scali sarebbe arrivato a Capodichino. Dovevano collaborare, quello era il Fatto. Continuava a piovere e una luce cupa e rosastra attraversava la stanza. In quei diciassette minuti il posacenere si era riempito nonostante la nota insofferenza del questore per il fumo. Le finestre erano chiuse quando il commissario si mosse, avvicinandosi alla finestra. Appoggiò il soprabito grigio sulla sedia e si lasciò rapire dai suoi pensieri. Aveva voglia di un caffè, come sempre. Sotto i suoi occhi la città si muoveva indolente. La stessa Napoli, fin dagli anni Trenta: sorniona, lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante, serafica. L’aria pesante della città gli faceva produrre aggettivi inutili, da tanti libri a questa parte. L’oscurità incombeva sui palazzi della Medina, sulla Posta centrale, sulle automobili al semaforo di Monteoliveto. L’ispettore invece fissava il vuoto, pensava al rientro a Pizzofalcone, e a come avrebbe dovuto dirlo ai suoi. Erano passati anni, e in giro li chiamavano ancora I bastardi. Erano la migliore peggior squadra di agenti della città. Non la sopportava più, quella città. La stessa di sempre. Sorniona, lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante, serafica. Gli sembrò di averli già letti da qualche parte quegli aggettivi, ma alla fine alzò – nonostante il caldo – il bavero del cappotto e mise le mani in tasca. Pensò ancora ai bastardi. Avrebbero dovuto fare appello a tutta la loro pazienza, lui avrebbe dovuto organizzare gli spostamenti. Accese un’altra sigaretta. Il questore, che pure era uscito senza cappotto, rientrò con le mani in tasca e il bavero alzato, dandogli indicazioni più precise.
Capodichino, Napoli. 11 luglio 2014. Ore 23,40. L’uomo iniziò a scendere le scalette, preceduto da tre agenti in borghese. Pioveva. Pioveva sempre ma l’aria era irrespirabile. Una nuvolaglia cupa nascondeva le grosse scritte sull’aeroplano, mentre le gocce sottili bagnavano il soprabito grigio di Ricciardi, infierendo monotone come quegli scrittori che raccontano sempre la stessa storia abusando degli stessi personaggi. Ma pure Ricciardi aveva capito che il lettore è un animale pigro e allora Lojacono rimaneva un passo indietro, osservando la sagoma del nero che fissava le auto della scorta con aria stranita. Più che nera la sua pelle era di un lucido marrone chiaro, come il caffè e le sfogliatelle di Scaturchio di cui, anche ora, Ricciardi aveva voglia. Da quando il nero aveva colpito il suo collega più giovane, era cominciato l’inferno. Erano passati diversi giorni ma le lettere e le telefonate e le minacce di morte non accennavano a diminuire. Le polizie di tutto il Sudamerica l’avevano prelevato seduta stante e trasportato in una località segreta, in Colombia. Da lì si erano messi in contatto con le autorità italiane e avevano deciso di riportarlo a Napoli, per tenerlo nascosto in un piccolo container nel futuro porto turistico di Villaggio Coppola. Ricciardi e Lojacono avrebbero dovuto, con i propri uomini di fiducia, organizzare il viaggio: quello era il Fatto, eppure Castelvolturno era sempre la stessa: lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante, serafica. Come chi mette due volte i due punti nella stessa frase. Gli sembrò di averli già letti da qualche parte quegli aggettivi, e così alzò – nonostante il freddo – il bavero del cappotto e mise le mani in tasca, allontanandosi con i capelli spettinati e la barba non fatta.
Il capo della scorta consegnò a Lojacono un pezzo di carta con un codice alfanumerico. Ricciardi accusò nel suo orgoglio l’essere stato scavalcato, ma pensò che anche quello, come tutti i delitti commessi dall’umanità, poteva essere ricondotto a due cose: la fame o l’amore (qualche volta pure al mal di schiena che da tempo lo perseguitava, e che solo il caffè riusciva a curargli). Lojacono mise il pezzo di carta nella giacca, alzò il bavero del cappotto e si infilò in macchina. Per completezza di informazione, va detto che mise anche le mani in tasca. Era ora: la missione doveva partire. Prima mostrò il pizzino a Ricciardi, che annotò a sua volta il codice. In quei numeri e quelle lettere doveva esserci qualcosa di importante. Un mistero legato ai fondali della città, a quei cunicoli sotterranei che nascondevano un’altra Napoli, che pure, come quella di sopra, era sorniona, lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante. Spesso era anche serafica, ma non sempre. Le macchine ripartirono verso l’autostrada, mentre le nuvole sbertucciavano il ponte della Maddalena, e la calata di Capodichino.
Strada Statale Domitiana. 12 luglio 2014. Ore 00,17. Il nero era finito in macchina con Ricciardi, e quello era il Fatto. Assieme a loro c’erano due dei bastardi che avevano litigato con Lojacono, che li costringeva a fumare a ripetizione per far si che il fumo avvolgesse l’interno della macchina. A nessuno era chiaro perché, ma l’aria doveva essere pesante, la nebbia fitta, l’atmosfera cupa come quella Napoli che era sempre stata, e ora ancor di più, sorniona, lugubre, strafottente, avvolgente e penetrante. Non gli erano mai piaciuti gli aggettivi, a parte quei cinque o sei. Non gli erano mai piaciute un sacco di cose, fatta eccezione per il caffè e la sfogliatella di Scaturchio. Dopo trentotto minuti di silenzio Ricciardi e il nero scambiarono qualche parola. Il poliziotto gli chiese se il caffè in Colombia era davvero così buono. L’altro rispose che ne beveva uno migliore all’autogrill di Agnano, quando si spostava dalla sua villa di Posillipo verso il litorale Domizio. Ricciardi fu colpito dal fatto che un nero avesse una villa a Posillipo, ma dopo un po’ smise di pensarci. Non era più la Napoli degli anni Trenta. Era una Napoli difficile da raccontare. Lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante. Quando il nero gli chiese il significato di quegli aggettivi si voltò dall’altra parte. Li aveva letti in un libro, anzi in dieci libri, di cui faceva fatica a distinguere titoli e storie. Non sapeva nulla di quel nero, Ricciardi. Sapeva, ora, mentre le nuvole sovrastavano le spiagge di Villaggio Coppola, che aveva colpito un altro nero, più giovane di lui. Sapeva che aveva una villa con piscina a Posillipo, una catena d’oro al collo, e che il caffè in Colombia era meno buono che all’autogrill Gli Astroni.
Il viaggio era finito e il gruppo arrivato a destinazione. E quello era il Fatto. Ricciardi e Lojacono, che non avevano scambiato una parola per tutto il giorno, si lanciarono un silente segno di intesa, cupo quanto basta, per due personaggi così, sempre con le mani in tasca e il bavero alzato. La missione era compiuta, era un Fatto. In nottata sarebbero arrivate le volanti, che avrebbero sorvegliato nelle settimane a seguire quel nero che riceveva minacce di morte da mezzo mondo. Con quelle volanti i Fatti finivano, ma restava il mistero. Né Ricciardi, né Lojacono, dovevano sapere nulla di quel ragazzo marrone come un buon caffè. Quelli erano i patti. Ma per due come loro il mistero non sarebbe durato, sarebbe diventato presto un Fatto. Si strinsero la mano come solo due nemici leali. E con lo sguardo si giurarono che mai avrebbero trovato pace fino a che quella complicata combinazione sul pezzo di carta “1” e “8” e quella scritta in calligrafia incerta “JCZu-ni-ga” sarebbe diventata Fatto. Le auto si allontanarono nella nuvolaglia, e all’altezza di Cancello Arnone ai due venne in mente che anche quel ridente paesino, dove il numero delle bufale è superiore a quello dei cristiani, era sempre lo stesso: sornione, lugubre, strafottente, avvolgente, penetrante. A tratti serafico. Ma per tutto quello ci sarebbe stato spazio in un nuovo libro. In uscita tra undici giorni.