È uscito durante l’estate Camorra Sound (Edizioni Magenes), libro di Daniele Sanzone, frontman del gruppo musicale ‘A 67. Il saggio, scritto sulle orme della sua tesi di laurea in filosofia, pone al lettore un quesito che Sanzone cerca di risolvere attraverso una serie di interviste: perché i cantanti e i gruppi napoletani della seconda metà del secolo scorso, e in particolar modo quelli “impegnati”, non hanno mai (o quasi) “preso posizione” contro la camorra?
Al di là dei virgolettati e delle etichette, più si va avanti nella lettura e più la questione assume contorni paradossali, come sottolinea Sergio Maglietta, leader dei Bisca: “Non capisco questo approccio: ci sono tanti problemi che non ho mai trattato, come la scissione della Democrazia Cristiana o l’ascesa politica di Nicola Cosentino. E sinceramente non sono sicuro di poter definire la mia musica impegnata”. Lo stesso Sanzone, in realtà, sembra cosciente di muoversi su un terreno scivoloso, tanto da citare decine di eccezioni al fenomeno (alcune canzoni dei forestieri De Andrè e Frankie Hi-nrg o dei napoletani NCCP, Avitabile, Gragnaniello, 99Posse) che più che confermare la regola finiscono per mettere in discussione la sua teoria. Il presupposto da cui parte l’autore è il solito vangelo anticamorra (“antimafia musicale”, si definisce), quello continuamente alimentato dalle prese di posizione strombazzate in pubblico che mettono in bella mostra questo o quel personaggio, ansioso di accreditarsi a botte di slogan (e canzoni, libri, film) come nemico giurato della criminalità organizzata.
È chiaro che in una narrazione di questo tipo non meritino considerazione – e siano liquidate sbrigativamente, come una seccatura – tante canzoni che della camorra e del legame tra il mondo criminale e le condizioni di vita dei napoletani parlano in senso più ampio e meno esplicito, eppure significativo. Testi di musicisti classici come De Simone (Giuvanneniello, cantata dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare), blues (‘Na tazzulella ‘e cafè, di Pino Daniele), rap (Fuje, La Famiglia), disseminati nell’arco di tempo oggetto dell’analisi.
Le accuse principali che Sanzone muove ai musicisti, e in generale agli artisti napoletani, sono due. La prima, esplicita, è quella di un giustificazionismo paternalistico e ideologico tipico della sinistra extraparlamentare: un atteggiamento che tenderebbe a indulgere nei confronti della camorra in virtù della mancanza di alternative offerte agli “ultimi” della città, come se De Filippo avesse scritto De Pretore Vincenzo o Il Sindaco del rione Sanità sotto minaccia dei NAP, o Di Giacomo, Russo e Bovio fossero stati influenzati dagli ideologi di Lotta Continua. La seconda, più inquietante, è quella mossa ai vari artisti (Bennato, Daniele, Napoli Centrale e poi Almamegretta, 99Posse, Co’Sang) che avrebbero individuato, nelle loro canzoni-invettiva, le istituzioni e lo Stato, piuttosto che la camorra, come principali responsabili di questo o quel problema. Una accusa ingenua che tra l’altro si sforza a scindere due entità che nella storia della città si strizzano l’occhio da settant’anni, e che sono da considerarsi un tutt’uno in alcuni momenti decisivi della stessa, dal sequestro Cirillo fino ai recenti interramenti di rifiuti tossici. Grottesca è pure la pretesa di classificazione socio-musicale: se è ovvio, per Sanzone, che i neomelodici e i cantanti della sceneggiata scandalizzino i benpensanti parlando di killer e coltelli, l’autore si chiede come mai ai musicisti “borghesi” (come se Daniele, Senese e Avitabile fossero nati al Vomero), che pure sono pronti a infarcire di “impegno civile” le loro canzoni, non salti mai in mente di parlare di camorra, evidentemente l’unico soggetto ritenuto degno di discussione per un artista napoletano. D’altra parte, quando si parla di Mario Merola, Pino Mauro, dei neomelodici e delle feste dei Gigli, Sanzone non esita a partire all’attacco, rispolverando il solito repertorio sulla musica della mala, disciplinandolo in gerarchie ridicole (influenzate dallo sdoganamento mainstream di questo e non di quell’artista) secondo cui Merola è meno camorrista di Mauro, Tizio è più violento di Caio, e così via. Il tutto attraverso una serie di teorie inconsistenti che denotano una conoscenza superficiale delle discografie in questione.
In fin dei conti l’approccio del libro è un approccio politico, figlio della cultura del legalitarismo in cui si è rifugiata da qualche anno la sinistra italiana in mancanza di approdi più sicuri. Si ignora, è evidente, come in nome della legalità, nella nostra città, negli ultimi anni si siano giustificati i più clamorosi imbrogli ai danni della popolazione (per esempio l’apertura di discariche e inceneritori a forza di manganellate e arresti). Da questa lettura (nonostante gli insegnamenti del messia Saviano) trapela l’incapacità o meglio il rifiuto di leggere il fenomeno mafioso come parte di un contesto ampio, e allo stesso tempo vien fuori una concezione astorica di una mafia come entità indipendente ed estranea alle istituzioni. Una modalità di lettura rassicurante e incoraggiata dalle classi dirigenti, per la quale un nemico vago e immateriale da combattere, associato alla figura del capoclan da sbattere prima o poi al 41bis, è più conveniente di un’altra che si sforzi di indagare e scardinare certe dinamiche politiche e affaristiche.
Circa quarant’anni fa, Maurizio Valenzi, sindaco comunista di Napoli, ebbe delle noie con la dirigenza del suo partito per aver definito in una intervista il contrabbando di sigarette come “la Fiat napoletana” (riprendendo velatamente una dichiarazione di Michele Zaza, che amava considerarsi “l’Agnelli del sud”). Una considerazione che oggi nessun politico avrebbe il coraggio di fare, e che mostrava una capacità di leggere la complessità della città, attualmente del tutto sparita. Un problema, la “complessità della rappresentazione”, che il libro pretende di risolvere, come da programma della sedicente antimafia egemone di questi anni, affiancando alle storie di camorra e violenza quelle positive e di buone pratiche. “Sarebbe come sperare che tutti diventino santi perché in tv passano solo film su padre Pio”, risponde Giancarlo De Cataldo. Sarebbe, verrebbe da aggiungere, scavalcare qualsiasi velleità di analisi per rifugiarsi nella solita, comoda antinomia “bene vs. male”, che rimpolpa gli eserciti degli eroi a costo zero ma non dà alcun contributo alla risoluzione del problema. Che è poi ciò che accade quasi sempre in questa città ogni volta che si parla di camorra. (riccardo rosa)