È davvero così importante il motivo per il quale si parte? C’è gente che può girare tutto il mondo con il proprio passaporto e persone che anche solo per spostarsi nel paese più vicino hanno bisogno di un visto e di soldi. Molti soldi, per corrompere qualche funzionario e riuscire a ottenerlo.
Di questa seconda categoria fa parte chi parte alla ricerca di una vita migliore, di un lavoro o di una sicurezza che nel proprio paese non trova. Chi è costretto a fuggire, scacciato dall’odio di altre persone. Altri che viaggiano in cerca d’amore.
Le leggi, i politici e i giornali, ci hanno abituato a fare molta attenzione quando si parla di immigrazione, ci hanno insegnato a distinguere. Noi, Italia, non possiamo accogliere chi cerca amore ma solo chi è scacciato dall’odio. Non possiamo aprire le frontiere a chi spera in un lavoro ma solo a chi insegue la sicurezza. Profughi buoni e migranti cattivi, è questa la distinzione.
Una distinzione che però ci dice poco delle reali motivazioni che spingono alla partenza, di quel background che è concausa della decisione di lasciare il proprio paese. Dopotutto, chi ci dice che una persona arrivata in Italia, che ha richiesto asilo a causa di una guerra appena scoppiata nella sua terra, non avesse già deciso di abbandonarla, poiché la mano della donna che amava gli era stata negata?
Un esempio banale, ma neanche troppo. Un esempio che può farci capire molto della complessità delle motivazioni che spingono una persona a partire abbandonando tutto. Una complessità che esplode in tutta la sua chiarezza, quando affrontiamo il tema delle migrazioni ambientali.
Non si parla, qui, di volatili. Ma di trentadue milioni di individui che, secondo alcune stime dello scorso anno, sono dovute migrare a causa di problemi climatici e disastri naturali. Le stesse stime sostengono che, tra meno di quarant’anni, il numero di queste persone salirà fino ai duecentocinquanta milioni, con una crescita di sei milioni all’anno. Una nuova Roma in movimento ogni trecentosessantacinque giorni.
Sono queste persone, questi flussi, questa complessità, che ancora non conosciamo. In Argentina, nella provincia della Catamarca, c’è un popolo che lotta per non fare la fine delle rondini, costrette a spostarsi in cerca di cibo e risorse da una regione all’altra del pianeta. Il loro problema è uno. Si chiama miniera. Sono anni che le multinazionali dei minerali infatti, con l’appoggio del governo, moltiplicano i progetti per l’apertura di nuove miniere a cielo aperto, che sono passate in meno di un decennio, nel solo paese latinoamericano, dalle circa quaranta del 2003 alle oltre seicento del 2010.
I bulldozer estirpano gli alberi, le mine fanno saltare la terra prima coltivata, gli acidi e i prodotti chimici inquinano la terra e le falde acquifere. Gli ecosistemi che avevano permesso per millenni la sopravvivenza delle popolazioni indigene vengono distrutti, ogni tentativo di ribellione viene estirpato dai manganelli della polizia e messo a tacere dalle sentenze dei tribunali.
Dieci, cento, mille rondini rischiano così di volar via dal nido argentino per dirigersi verso territori più accoglienti. Nel loro paese, l’unione coniugale millenaria con la madre terra, con la Pacha Mama come viene chiamata lì, è stata bruscamente interrotta. La domanda è: perché, mettendo da parte ogni inutile distinzione, non possiamo accoglierli noi questi esseri viaggianti in cerca di una nuova vita e di un nuovo amore? (marco stefanelli)
Per saperne di più sulle migrazioni ambientali e sulle miniere a cielo aperto in Argentina ascolta l’ultima puntata di Passpartù.