A Gibellina Vecchia vi è il Grande Cretto di Alberto Burri, medico, soldato, prigioniero, pittore italiano tra i più famosi al mondo. Il villaggio si raggiunge uscendo dall’autostrada Mazara–Palermo, a circa venti chilometri a sud di Gibellina Nuova. La stradina testimonia la ruralità della Valle del Belice, fatta di colline, affluenti del Belice, terrazzamenti per le vigne e pale eoliche. Venti minuti e si arriva in una città desolata, che assieme ad altre quattro fu rasa al suolo dal terremoto del 15 gennaio 1968, uccidendo duecentotrentaquattro gibellinesi. È una città fantasma: i ruderi delle case accompagnano il viaggiatore nel suo ingresso in loco, mentre da lontano appare l’enorme struttura del Cretto, una colata di cemento che copre gli isolati del paesino aggrappato al monte, lasciando intatto il sistema viario. Camminarci significa perdersi in un paesaggio urbanistico surreale, in cui tutto è indistinto: lì dov’era la farmacia, il barbiere, il municipio o la torre de Lu Turcu, ora c’è un parallelepipedo in cemento. Il terremoto rende uguali per come distrugge senza distinzione, senza salvezza, e per come conduce alla desolazione. C’è silenzio, e ne approfittano due ragazzi, saliti su uno dei grandi blocchi a contemplare i resti del teatro, e i vigneti alle spalle.
Per Tucidide e Diodoro Siculo, Gibellina è fondata nel 759 a.C., prima cioè della colonizzazione greca della Sicilia. Ma non prima dei primi greci, che approdano, presso Milazzo, Lipari e Tapsos (Siracusa) già in epoca micenea. È una delle città degli Elimi, un popolo forse di origine ligure, che riuscì a non farsi sottomettere dall’avanzata greca in occidente stringendo alleanza con i Cartaginesi di Palermo e Mazara. Gibellina, assieme a Segesta ed Erice, rappresenta il cuore dell’identità elima in opposizione agli invasori, scacciati con la distruzione di Selinunte nel 409 a.C. Poi vennero gli arabi, e gli diedero l’attuale nome: “occhio del monte”. Questo nome non vale più per Gibellina Nuova, posta in una valle paludosa. Corrao, il sindaco di allora, che si vide arrivare duemila miliardi per la ricostruzione – circa la metà di quelli che ebbero i cittadini friulani – coltivò il sogno della rinascita di una città ideale, un virus che ha imperversato in Italia negli anni Sessanta e Settanta, generando quartieri come Scampia, Quarto Oggiaro o lo Zen. Fu occasione ghiotta per architetti e artisti, che accorsero in massa, per portare i loro progetti e le loro opere.
Se c’è una cosa che lega le due Gibelline è il silenzio: la prima è una città immortalata per sempre sotto un sudario di cemento, archeologia dell’archeologia, perché sia monito del passato; la seconda è un cimitero fatto di villette, sistemi di piazze, monumenti, strutture in costruzione da quarant’anni. Passando per le strade si ha l’impressione di una città costruita per ventimila abitanti, ma ne ha meno di cinquemila. Le finestre sono quasi tutte chiuse, le strade deserte, dove sono più le costruzioni, le case, i monumenti che i negozi che servono al vivere quotidiano. Il teatro, gigantesco, è ancora in costruzione: sembra pensato per accogliere tutti i cittadini della Valle del Belice. Il sistema delle piazze, fatto di spazi piani molto ampi, adornati di cubi, piramidi, sfere, sono il luogo preferito dai ragazzi per far rimbalzare il Super Santos. La chiesa di Quaroni è un incrocio tra una nave e una moschea, e crollò in parte nel 1994, prima della sua inaugurazione. Ogni architetto ha costruito il suo quartiere come se fosse stato l’unico della città, e alla vista si ha l’impressione di essere in un’accozzaglia urbanistica, come tanti set cinematografici posti l’uno accanto all’altro. Il perimetro della città è fatto di villette a schiera, con palazzine di massimo tre piani. In un incrocio tra due strade di questo paese morto, d’improvviso, sbuca la vita: vi sono circa dieci anziani fuori un bar, immobili. Tutti in camicia, ora azzurra ora bianca, si sono sistemati sono la grande ombra di un albero. Sono fermi, e ogni tanto qualcuno muove il collo e le labbra, per dire qualcosa sottovoce al suo vicino.
Gibellina Nuova è un monumento al fallimento. Chi è venuto qui, quarant’anni fa, per far vetrina al suo ego, ha creato una città più adatta al Sussex che all’entroterra siciliano. Le villette e le piazze hanno privato i gibellinesi, feriti dal terremoto, dei bassi in cui mettersi fuori con la sedia, a leggere il giornale o radersi, come si fa da queste parti. Non sanno cosa farsene di una stella o di un aratro gigante, se il bar Meeting non ha spazio per sedersi fuori. Se il terremoto ha distrutto il borgo siciliano, l’uomo ne ha distrutto l’identità, fallendo anche l’agognato obiettivo del turismo culturale, che qui non è mai giunto. Né le associazioni culturali sono riuscite a invogliarlo. Mancano ancora i soldi per finire la città, e il suo teatro, che aspetta solo di restare vuoto.
Chi è venuto qui, doveva sapere che gli Ateniesi in guerra con gli Spartani, quando arrivarono in Sicilia nel 415 a.C. per cercare negli Elimi alleati alla loro causa, visitarono, tra le città, anche Gibellina, e non vi trovarono che quegli anziani sotto l’albero, lì da millenni, come la cultura di queste terre. Come Atene si reggeva su un albero di ulivo, gli anziani gibellinesi portatori della memoria cittadina sono radunati sotto la protezione di un carrubo. Gibellina c’insegna come non si fanno le città, e come non si fa cultura, e con essa business. La cultura è legame genetico con le persone che la vivono, non un’epifania che scende dall’alto. E nessuno ha voglia di avventurarsi per le stradine del Belice per vedere qualcosa che, con quelle terre, non ha nulla a che vedere.
Nell’andarsene dal Cretto, il viaggiatore deve fermarsi a vedere quel che resta del teatro: all’interno, tra immondizia, calcinacci e odore di urina, c’è una scritta sul muro: “Edilio Corradini. 15/01/1968 – 12/06/2013 ”. Gibellina è ancora qui, sotto il cemento e il silenzio. (alessandro cocorullo)