«Posso darti un consiglio?». Fatima mi si rivolge con la premura di una sorella maggiore: «Quando ti spogli, non ti guardare nello specchio». Si pettina con cura, sceglie i vestiti, la borsa e le scarpe. «Quando mi spoglio, io dico: “Bismillah, bismillah, bismillah”. Significa che mi può vedere solo Dio». Si infila la bandana, poi fissa l’hijab, il velo, con una mezza dozzina di spilli: perfetto, non si vede neanche un capello.
Fatima ha dovuto litigare con tutta la sua famiglia per non sposare un cugino. «Avevano deciso tutto senza di me, e io mi sono arrabbiata». Mi chiede cosa ne penso, e le spiego che in genere da noi le ragazze possono scegliersi il marito da sole, e che c’è anche chi vive nella stessa casa senza essere sposato. Mi lancia un’occhiata di preoccupazione e io riesco a malapena a balbettare che vivo in una cultura troppo diversa per poterle dare dei consigli.
Prendiamo la metropolitana per raggiungere Sara, Nur, Nisreen, Ibrahim e Morad. Hanno studiato italiano all’università, e lo parlano discretamente. È il mio ultimo giorno al Cairo, e Ibrahim propone una passeggiata ai giardini di ElAzhar, un luogo di ritrovo per famiglie, che pagando un biglietto da pochi spiccioli trovano rifugio dal caos e dallo smog cittadini.
«I nostri genitori non vogliono che andiamo in questo parco senza di loro» obietta Fatima: «Ci sono troppi ragazzi che potrebbero darci fastidio». Così decidiamo di andare a fare un giro in feluca intorno all’isola di Gezira, nel tratto di Nilo che attraversa il centro della città. Accanto a noi, su un’altra barca, un gruppo di ragazze ballano lo Sha’abi, la musica popolare egiziana, a cui negli ultimi decenni si è aggiunta una spessa patina di effetti elettronici. I miei amici si dispongono sui due lati dell’imbarcazione: ragazzi da una parte, ragazze dall’altra. Poi si riavvicinano per comunicare o scattarsi insieme dei selfie.
Il fiume scorre torbido tra i grattacieli e le baracche, mentre il sole inizia a tramontare. Quando ritorniamo a terra ci dirigiamo verso il centro, dove i ragazzi propongono di bere un tè a un tavolino del loro bar preferito, un caffè all’aperto, in arabo ahwa, frequentato anche da donne. Le ragazze obiettano ancora. I loro genitori non vogliono che si siedano in locali pubblici dove le donne fumano la shisha.
Mentre gli altri ragionano sul da farsi, Sara si avvia verso casa. Sono quasi le sette, presto farà buio. Sebbene una minoranza di ragazze abbia iniziato da tempo a frequentare gli ahwa popolari del centro, la sensazione è che al Cairo, per le giovani, sia molto più facile frequentare i McDonald’s o gli altri fastfood, probabilmente grazie al divieto di fumo che vige al loro interno. Così i luoghi di evasione, reali e virtuali, per molte giovani egiziane sono garantiti dalla globalizzazione, i cui spazi e le cui pratiche sono percepiti come più sicuri. Discorso che vale per Facebook e per i centri commerciali, per esempio, che hanno invaso le periferie del Cairo, e in particolare le tante città private, dove per entrare c’è bisogno di un pass, ma è anche più facile che altrove vedere ragazze uscire da sole la sera. Quello che resta di egiziano al Cairo, invece, è percepito come troppo pericoloso. «I genitori hanno paura che le figlie vengano qui e fumino la shisha… e magari anche della droga», spiega Morad, con tono serio, davanti a un tè alla menta.
Rifletto sul fatto che le ragazze non prendano neanche in considerazione l’idea di dire una bugia ai genitori, ma Morad mi ricorda che è il Corano a prescrivere il rispetto dei genitori. Poi si allontana qualche minuto per la preghiera della sera. Ripenso alle parole di Suad, attivista di Nazra, centro studi femminista nel cuore del Cairo, secondo cui «a minacciare la libertà delle donne egiziane non è la religione, ma il conservatorismo».
L’aria inizia a rinfrescarsi. Intorno a me, le ragazze con il velo bevono dolcissimi succhi di frutta, fumando e chiacchierando con i loro amici, in una lingua che ancora fatico a capire. (giulia beatrice filpi)