Crapolla la si può conoscere avendo un amico della penisola sorrentina, o per caso su internet. Nonostante la pubblicità, resta un luogo ancora isolato, troppo scomodo per il turista. È per questo che la si può visitare anche ad agosto, senza il timore di un carnaio compresso da sabbia e acqua. Sviato il traffico rituale, dei fedeli del turismo diretti ai santuari di Sorrento, Positano e Amalfi, l’auto si arrampica verso Sant’Agata sui due golfi, che ha il privilegio di affacciarsi sia sul golfo di Napoli che su quello di Amalfi. Pochissimi metri racchiudono l’intero paese, estraneo alla massa di cappelli di paglia e occhiali di sole, solo perché è sulla cima dei monti Lattari, che spaccano gli accenti del salernitano da quelli del napoletano.
Le informazioni base le prendiamo da qualcuno del posto, e poi giù per un’ora, per una strada scoscesa e ripidissima, via Crapolla. La strada si destreggia tra villette aggrappate alla montagna, mentre il mare appare all’orizzonte: è un via vai di navi, navicelle e scafi, che lasciano scie bianche intorno agli isolotti, quale l’isola Delli Galli, della famiglia De Filippo. Il sentiero poi si stringe, e costeggia un dirupo in cui scorre, d’inverno, un fiume che muore a mare. Gli alberi, clementi, si piegano perché il sentiero sia ombroso, protetto da un sole che vuole infiammare questa terra, prosciugarla del suo mare, costringere i viventi a chiudersi nelle case, nei boschi. È forse invidia di Apollo, che deve bruciare sul suo carro, mentre Posidone si sdraia tra mare e terra, di cui è signore indiscusso.
Finita la discesa, faticosa, pericolosa anche, e battuta dagli apecar dei nativi, cominciano i quasi settecento scalini che operosi monaci ricavarono dalla viva pietra sei o sette secoli fa, perché il loro santuario fosse d’accesso alla montagna. Si scendono con il dolore nell’addome e la gioia negli occhi: mentre i piedi evitano i buchi, i gradini scoscesi o mancanti, gli occhi si riempiono del mare e del cielo, e delle isole in lontananza. I calli a fine giornata sembrano un dono ulteriore, piuttosto che un prezzo da pagare. Nel santuario vi abitarono per primi i monaci benedetti neri, poi passò sotto il papato, senza che mai un signore locale vi mettesse le mani. Dapprima appare una croce, e un sacello dedicato a Pietro sui resti di una badia medievale che prova ancora raccontare la sua storia, con i capitelli e un basamento che emergono da terra, proprio dinanzi al tempietto. Tracce di un fuoco, alle spalle, testimoniano pellegrini di Dio e del mare, in un connubio tra Jahve e Posidone che non trova conflitto ma armonia, tacito accordo di divinità orgogliose del loro operato.
Poi gli ultimi scalini, e le prime voci: appaiono le barche dei pescatori, che trovano qui riparo quando il mare è inclemente, e le case rupestri dei monaci, e i magazzini, e le rampe per le barche. Molte cose sulla strada di Crapolla, per essere un fiordo abbarbicato tra due montagne degradanti in mare, e sorvegliata da una torre medievale di forma rettangolare.
Ecco la spiaggia, e pochi bagnanti, di cui pochissimi pellegrini. Molto di questi approfittano dei collegamenti marittimi per raggiungere la spiaggetta, per pigrizia di cose belle. Come la terra per il marinaio che si è abituato alla monotonia dell’oceano, del sole, delle piogge e della paura, non avendo più ricordo degli alberi, delle case, dei sentieri, dell’erba, dei tavoli per i fiaschi di vino, delle sedie per le schiene stanche, così essi non hanno più memoria dei tempi lenti, delle piccole gioie dopo grandi fatiche.
Un tempo, prima che i monaci s’insediassero, vi abitavano pescatori, quando i romani chiamavano quel mare, il Mediterraneo, Mare Nostrum. Ma era anche di quei pescatori, che vi eressero un tempietto ad Apollo, perché fosse benigno nei giorni di canicola e nelle infezioni quando scarseggiava la frutta: Ara Apollonum. I giri di parole e della linguistica hanno trasformato il nome del posto in Crapolla.
Scalini e spiaggia sono separati da una grossa colata di cemento che copre l’antico selciato: vi sono le costruzioni di rifugio dei monaci, alcune di esse rupestri. Qui visse Teofilo Folengo, poeta che aveva iniziato la sua carriera imitando Virgilio ma, visto lo scarso successo, si diede alla poesia definita maccheronica, perché leggera nei temi e volgare nel linguaggio, usando ora l’italiano ora un latino per l’appunto maccheronico, ispirazione per la strana lingua che Monicelli mise in bocca a Brancaleone.
Le barche dei pescatori sono il riposo dall’inverno, e alcuni tavolacci con brace accanto testimoniano momenti di festa, dopo quelli di paura, pazienza, fatica tra il mare che, come ricorda Omero, non può essere arato ma dà i suoi frutti senza logica precisa, senza un premio ai migliori, solo secondo fortuna. In una delle costruzioni s’intravedono tavoli di plastica e panche in legno, tubi, vasche, e poco altro: quando non vi sono pellegrini, i pescatori sorrentini usano i luoghi chiusi di Crapolla, al contrario del bagnante che scappa dall’interno verso l’esterno. Storie di contrasti, di uomini di mare che cercano la terra e di uomini sulla terra che guardano al mare.
Nel primo pomeriggio arrivano tre canoe, con istruttore e due turiste tedesche. Poi alcune barche, con turisti stranieri alla ricerca del finto brivido del luogo nascosto. Ma nascosti sono i luoghi che vogliono sudore dei muscoli, non propano nel mare. Costretti dai tempi, presto se ne vanno, compresa una famigliola, che un gozzo viene a ritirare dopo la giornata in mare. Restiamo in cinque, tra cui un anziano che a lungo dà prova delle sue capacità di nuotatore. Siamo i pellegrini di Crapolla, quelli che risaliranno le scale e il sentiero sotto il sole, col sorriso stampato in volto. Siamo come quei monaci che si legarono al mare, al riparo di una montagna. Su una spiaggia deserta, tempio in cui pregare ancora. (alessandro cocorullo)