I gambi sono ancora teneri e le foglie, piccole, stanno crescendo lentamente per diventare ruvide e lunghe. Tra qualche mese i campi dove ora queste piantine crescono in filari ordinati diventeranno dei tappeti verdi e rossi e la stagione del pomodoro inizierà. “Oro rosso” lo chiamano in molti, anche se il confronto del prezzo, a oncia, tra questo e il più regale metallo ci fa capire che l’accostamento è alquanto esagerato. Otto centesimi, tanto le grandi industrie di trasformazione campane danno agli agricoltori del sud Italia per un chilo di questo “oro”. Una miseria. Più in basso rispetto ai proprietari dei campi in questa strana piramide lavorativa ci sono i braccianti, naturalmente stranieri, ovviamente sfruttati. Per raccogliere un chilo di quest’oro, che adesso faremmo meglio a chiamare più semplicemente pomodoro, questi lavoratori guadagnano ancor meno, tre centesimi e mezzo di euro.
Messa in questo modo, affiancando i problemi economici più immanenti al ciclo di crescita delle piante, necessariamente più lungo, questo sistema potrebbe apparire quasi inarrestabile, esistito da sempre e probabilmente infinito. A ben guardare però le cose non sono così immobili e anzi tra le pianure meridionali, pugliesi e lucane, da alcuni mesi a questa parte dei cambiamenti stanno avvenendo.
In Puglia la Regione, con l’aiuto di alcune delle associazioni di terzo settore, sta ragionando a un progetto complesso “Capo free, Ghetto off” con il quale vorrebbe raggiungere due obbiettivi principali: combattere lo sfruttamento lavorativo e superare uno dei tanti insediamenti di baracche che da anni, ogni estate, dà un tetto a circa un migliaio di lavoratori africani impegnati nella raccolta del pomodoro, il Gran Ghetto di Rignano Garganico.
Le strade da intraprendere, tutte in salita, sono insomma due. La prima prevede di mettere in campo un sistema fatto di bollini solidali per le aziende che assumono i lavoratori in regola, di filiere corte per portare i pomodori direttamente dal produttore al consumatore, di rafforzamento del sistema dei centri per l’impiego regionali che possano garantire la stipula di legali contratti di lavoro tra proprietario del campo e lavoratore. Dall’altra parte, la suddivisione del Gran Ghetto – solo una delle molte baraccopoli create tra i campi del meridione per ospitare i braccianti stagionali – in accampamenti più piccoli, crea al contempo malumori e aspettative tra chi quei ripari di legno e plastica li abita da molti anni.
C’è chi non ce la fa più ad aspettare che i camion della regione portino, tre volte al giorno in estate, l’unica acqua potabile che riesce ad arrivare tra le isolate baracche; c’è chi vorrebbe finalmente approfittare di un’antica scoperta dell’uomo che al Gran Ghetto, tranne per qualche generatore sparso, sembra ancora non essere arrivata, l’elettricità. Allo stesso tempo, però, a molti sembra assurdo spostarsi, così come vorrebbe la regione dal primo luglio prossimo, in tendopoli temporanee in attesa di soluzioni più stabili.
Sia perché la stagione del pomodoro sarebbe nel pieno e per un trasloco del genere occorrerebbe perdere alcuni giorni di lavoro, e di conseguente guadagno, sia perché il Ghetto in quel periodo accoglie già un migliaio di braccianti stagionali. Aspettare l’autunno, la diminuzione del lavoro e del numero di abitanti del Ghetto sarebbe sicuramente meglio, ma su questo la Regione non sembra avere ancora le idee chiare.
Chi le ha chiare in questo momento è invece Abdul, un giovane burkinabè che da alcuni anni vive nella zona di Venosa, in Basilicata. Lo scorso anno, con l’appoggio del suo datore di lavoro e di alcune associazioni locali ha iniziato un progetto interessante: piantare pomodori e rivenderli alle famiglie dei paesini vicini, quelle che ancora, tra agosto e settembre, nei magazzini sotto casa si riuniscono per fare insieme la passata di pomodoro. Abdul è riuscito a produrre e vendere venti quintali nell’estate del 2013 e adesso ci sta riprovando, aumentando però il numero di piante e, si spera, l’entità del suo esiguo guadagno.
È impossibile pensare che i diciottomila braccianti che ogni estate raggiungono la pianura pugliese, o i duemila che arrivano nei campi lucani, possano tutti avviare progetti simili, sostituendosi ai proprietari italiani nella gestione delle terre e trasformando lo sfruttamento lavorativo in autoproduzione solidale, ma forse questi due esempi erano necessari per far capire che se le piante di pomodoro crescono, queste si, sempre allo stesso modo da sempre, non è detto che lo schiavismo che l’attuale modello agricolo perpetra ai danni dei braccianti e dei piccoli proprietari debba continuare a rimanere immutabile, fino alla fine definitiva del sistema. (marco stefanelli)
Per saperne di più sul progetto della regione Puglia e sui pomodori solidali di Abdul, ascolta l’ultima puntata di Passpartù.