Nel mezzo del quartiere romano della Montagnola, nella piazza che ricorda i cinquantatre italiani uccisi nel settembre 1943 dai tedeschi che occupavano Roma, è nato da qualche anno un laboratorio creativo, Refugee Scart.
Basta salire quei scalini e ci si trova trascinati in un mondo nuovo dove mani nere, con rapidi colpi di ferro da stiro, saldano insieme plastiche colorate per creare inaspettati e splendidi tessuti. Il progetto è nato nel 2011 dall’idea di Marichia Arese che, in pochi mesi, è riuscita a metter su una squadra di ragazzi immigrati che mai al mondo avrebbero pensato di partire dall’Africa per ritrovarsi a frugare nei cassonetti della spazzatura di Roma, alla ricerca di plastiche multicolori da usare come basi del proprio lavoro.
La forbice di Assad taglia una bottiglia d’acqua in tre parti, prima la seziona al centro, poi rifila il fondo su cui incolla, in ultimo, la parte superiore della bottiglia. Ecco creato un bicchiere. L’idea è di Marichia, ma poco importa, dato che l’unico a guadagnare da questo lavoro è il gruppo di rifugiati e titolari di protezione internazionale che porta avanti attivamente il laboratorio. Il progetto è cresciuto molto negli ultimi anni. Le plastiche non si cercano più necessariamente nella spazzatura, ma è la stessa AMA, l’Azienda Municipallizata Ambiente, a fornirle. Inoltre, subito dopo pasqua, chili e chili di carta per confezionare le uova è arrivata a Refugee Scart in piccoli pacchi chiusi, spediti da tutta la città.
«La cosa più bella è che con questo lavoro ho conosciuto tantissime persone», racconta Seckou in una stanza allestita come una vetrina per gli oggetti prodotti dal laboratorio, borse da mare, ceste, lampade, segnalibri, portafogli, orecchini e collane. Prima, come molti altri immigrati appena arrivati in Italia, Seckou viveva nel limbo dell’interminabile attesa dei documenti, dell’impossibilità di lavorare e dell’esclusione sociale che colpisce chi è costretto a vivere in centri d’accoglienza lontani da tutto e soprattutto da tutti, nelle periferie più nascoste di Roma come delle altre città di questo paese.
Refugee Scart gli ha permesso però di rompere con tutto questo, di incontrare nuovi amici e sentirsi responsabile di un progetto comune, autogestito, in cui non c’è un capo a dirti cosa fare ma solo la tua forza d’animo a spingerti ad avanzare di un passo in più nel percorso già avviato.
L’ago di Buba si abbatte rapidissimo sul tessuto fissando, punto dopo punto, il filo nella plastica riciclata. La trama che si forma unisce i singoli buchi mettendoli insieme e rendendo il complesso più forte. Il principio, se parliamo non di stoffe ma di uomini, è lo stesso. I singoli individui sono collegati da un progetto comune, da un filo rosso che li rende più resistenti permettendo all’insieme di raggiungere ciò a cui il singolo non arriverebbe mai.
È questa, in fondo, l’idea di comunità cui molti di noi aspirano e che invece, nelle maglie di un mondo del lavoro sempre più brutale, sempre più precario, va a scomparire. È questa, forse, l’esperienza alla quale tutti noi possiamo attingere se vogliamo ripartire superando l’isolamento nel quale la società ci rigetta, per raggiungere una nostra, vera, felicità. (marco stefanelli)
Per saperne di più sul progetto Refugee Scart ascolta l’ultima puntata di Passpartù