“Sta renzecata ‘i costa schifata r’ ‘u Pataterno e r’ ‘a pruvvidenze, ch’echeggia ancora in parte eiaculata ‘ncoppe ‘a ‘nu lietto spuorco ‘i cunzeguenze, brulica sott’ e ‘ncoppe azzeriate ra ‘nu popolo senza mamma nné pate: n’accolita ‘i cumpare spiccia-perete, vattiente ca vatteno fujente, stuoteche muort’ ‘i famme aspartate nel ghetto r’ ‘a scummunica cantate! Ciarpame elegiaco r’u catrame, cumpagnia filodrammatica di guitti! Nate ‘i sette mise eppure maje smammate…” (Mimmo Borrelli, ‘A Sciaveca)
Per sciaveca s’intende la rete da strascico, “ma è anche un modo che i bacolesi hanno per definire qualcosa di molto negativo”: la sciaveca infatti tira fuori anche la melma, “la merda del mare” depositata sul fondo.
Mimmo Borrelli – Premio Riccione 2005 con Nzularchia – ritorna dopo cinque mesi di assenza dalle scene, e lo fa in occasione del penultimo appuntamento della rassegna “Anime in Transizione” alla chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco, cui hanno preso parte alcuni tra i migliori artisti e drammaturghi italiani contemporanei. Stavolta lo spettacolo ha luogo sottoterra, nell’umido e consumato ipogeo: davanti a un altare antico illuminato da sparute candele, l’attore e drammaturgo flegreo mette in scena stralci da ‘A Sciaveca, un poema di circa quattromila versi, edito ma mai pubblicato dalla Ubulibri (che dalla scomparsa di Franco Quadri praticamente non esiste più), andato in scena al Mercadante nel 2008.
Prima della perfomance, Borrelli ci tiene a fare un interessante excursus sulla propria drammaturgia, “una parentesi topografica” sui Campi Flegrei, dove è nato e vissuto, luogo d’origine dei suoi racconti visionari e della lingua viva e affilata nella quale sono narrati. I Campi Flegrei hanno diversi frazioni, cui corrispondono altrettanti dialetti: quello di Pozzuoli, Bacoli, Baia, Cuma, Torregaveta. Le evoluzioni linguistiche dei dialetti dipendono ovviamente dalle vicende storiche: in primis i greci e i romani, poi l’arrivo nel Seicento circa dei “Marranos”, i sefarditi, i cosiddetti puorc’, in fuga dall’inquisizione spagnola: «Bacoli è un luogo arroccato su se stesso, rimasto chiuso nella sua storia, che non ha avuto quelle aperture linguistiche che invece caratterizzano il napoletano, che è una lingua piena di vocali aperte, mentre il dialetto flegreo è chiuso e gutturale».
Dunque siamo a Bacoli, agli inizi degli anni Settanta, periodo dello scoppio del colera: «La Sciaveca è la storia truculenta di tre fratelli, due pescatori e un prete: Tonino u’ bbarbon, Pepp’ scummtiell’ e in ultimo Cinq Secc’, fratellastro dei due che porta su di sé una tremenda maledizione». In scena con loro, tra gli altri, anche “Pacchione”, personaggio reale, pescatore di frodo – “e lo è ancora” – a cui Borrelli dedica un monologo la cui spiegazione (fatta dallo stesso autore) è degna di nota: lungo la costa torregavese e quella di Cuma, dal dopoguerra fino agli anni Ottanta, c’erano dei piccoli residui bellici che i pescatori smontavano e facevano esplodere: dopo lo scoppio di questa bomba d’acqua si buttavano a mare e risalivano con ogni tipo di pesce. Pacchione ha perso la mano a causa delle “caramelle e’ dinamit’” che gli hanno trasformato il braccio in una “cullan e’ carn cotta/ na brace ca fet’e’ zolfo, fumo, nitroglicerina/ e piscitiell’ i’ botta”.
A raccontare tutto questo, in versi, è il mare, testimone immobile dell’“orrida mattanza”, cui Borrelli attribuisce un linguaggio attinto dai luoghi in cui è vissuto. L’acqua produce dei versi, un suono che è già corpo, azione. Il mare di Bacoli parla un dialetto locale, come quello dei pescatori: l’andamento specifico della loro parlata diventa il ritmo stesso della narrazione.
Ne viene fuori un racconto materiale, fisico: la parola è corpo, il dialetto è corpo e azione. ‘A Sciaveca è un canto marino che come un’onda tocca picchi alti di lirismo per poi sprofondare nel catrame nero, nella melma, metafora del morbo che affligge un’intera comunità. Borrelli nel buio dell’ipogeo spaventa e incanta con una lingua dura, violenta e travolgente, talvolta davvero difficile da capire, se non fosse che l’immaginazione fa il resto. Un linguaggio frutto di una creazione inedita che però ha un’origine atavica, antica, ancestrale, profondamente legata alla terra d’origine, e più di tutto al mare. (francesca saturnino)
Cante e schiante. Performance in lettura tratta da ‘A sciaveca
di e con: Mimmo Borrelli
musiche: Antonio Della Ragione
data unica: 4 aprile, nell’ipogeo della chiesa di Santa Maria del Purgatorio ad Arco