Che noia questo Festival. Lo ripetono, spettacolo dopo spettacolo, gli spettatori di questo Napoli Teatro Festival Italia giunto all’ottava edizione. Acefalo per assenza di una direzione artistica, quindi un po’ senz’anima, privo di una linea poetica che lo renda meno enigmatico. O meno estraneo agli spettatori che pure affollano alcune sale e fuggono da altre. Applaudendo o mugugnando secondo i loro umori e passioni. Forse è troppo vasta, e quindi disanimata come un’enciclopedia, l’offerta di una sessantina di spettacoli stipati in venticinque giorni di affannose coincidenze. Un palinsesto che rende impossibile vederne almeno la metà anche ai più benintenzionati. Però la delusione di molti non riguarda soltanto il programma di quest’anno, si ripete infatti, più o meno identica, di anno in anno. Quindi il problema non è solo legato alla direzione artistica. È piuttosto il “sistema” di questo Festival che ha dei difetti, e grandi. È un peccato originale che risale alla idea stessa della sua creazione: “Creare un appuntamento di teatro per ripetere la passione del Festival di Edimburgo e magari di quello di Avignone”. Presunzione per incomparabili possibilità, storie e civiltà.
Varrà allora la pena ricordare che Napoli vinse il bando nazionale mettendo in fila non soltanto la sua storia e il peso politico dell’allora presidente Antonio Bassolino, ma la promessa di costruire un appuntamento “unico” per poetiche e spazi coinvolti. Primo tra tutti il porto con i suoi manufatti che dovevano trasformarsi, secondo le promesse, in meravigliosi e accoglienti luoghi d’eventi. Fu subito chiaro invece che il Festival era costretto a servire la città di Napoli prima di ogni cosa, nell’uso degli spazi e degli artisti, nonostante il tentativo di un pugno di grandi registi giunti a fare laboratorio e a farsi ispirare dalla città.
I flop sono stati più dei successi. I soldi spesi invece sono tanti. Ma non si ha notizia di documentati studi sulle “ricadute”, nazionali e/o internazionali, che il Festival avrebbe dovuto procurare. Pazienza. Ci si deve così accontentare di un Festival bicefalo, distribuito nei teatri e alla ricerca di nuovi spazi da rendere teatrali per spettacoli non sempre adatti agli spazi stessi. Errori che, a parte la magnifica e ormai remota invasione dell’Albergo dei poveri, si ripetono anno dopo anno. Sempre eguali, nell’affannoso progetto che risulta essere soltanto un “prolungamento di stagione” per una città che ha stagione lunga, e un “aiuto” a spazi e soggetti sempre e da sempre in difficoltà per carenze di politiche teatrali e culturali lungimiranti. Non entrerò nel merito degli spettacoli visti. Per lo più normale ortodossia teatrale, poco esaltante. E mi sembra superfluo tirare in ballo il nome di un paio di registi, autori o attori di assoluto prestigio.
Ogni anno aspetto, e con me credo lo aspettino tanti altri spettatori, che il Festival sia finestra aperta sul mondo, o almeno capace di mostrare al mondo un’eccellenza che pure deve esserci da qualche parte. Altrimenti è inutile spendere la bellezza di quattro milioni per un evento “straordinario” che sembra “ordinario”. Quest’anno con un atto di coraggiosa intuizione il Festival ha invaso gli spazi magnifici di Castel Sant’Elmo. Avrei chiesto altro coraggio nelle scelte lasciando da parte i teatri della città, così da fare per qualche giorno del castello una vera Città del teatro, davvero sempre aperta e piena di pubblico, finalmente animata da spettacoli-evento pensati o modellati lasciandosi ispirare dai luoghi e dalla loro storia, in numero minore forse, ma capaci di indagare nei linguaggi che la pigrizia o l’abitudine tiene nascosti, dando più spazio, o fiducia, ai giovani talenti. (giulio baffi)