Qualche anno fa, alcuni amici con cui condividevo e tuttora condivido velleità letterarie, affittarono una bella casa in un antico palazzo nei pressi di via Foria. Ognuno prese possesso di una stanza, ma era nel salottino, affondando nei divani in pelle senza più molle, che pullulava la vita culturale di quell’appartamento. In cucina, al contrario, considerando la scarsità dei mezzi di sostentamento, le cibarie erano talmente poche da indurre i cinque ad affiggere al muro un menu estremamente povero, che tentava di celare l’insensatezza delle portate dietro dei nomi affascinati (La maledetta: riso e fagioli; La scostumata: pane raffermo, tonno e provola; L’indegna: cavolo e peperoncini verdi). L’esperienza coabitativa si concluse con un inquietante blitz a vuoto della narcotici, e con una fuga verso una nuova destinazione economicamente abitabile nel centro città.
Il fatto che attraverso storie di questo genere ci siano passati in tanti, non le rende necessariamente meritevoli di diventare il soggetto di un libro, come invece accade per Tra le macerie, volume del napoletano Davide D’Urso (Gaffi Editore), al suo primo romanzo dopo due raccolte di racconti, pubblicate nel 2007 e 2012; tanto più che il libro, che cerca di accreditarsi come l’ironica ricostruzione della vita di un “precario della cultura”, diventa quasi subito una banale carrellata di fotografie già ampiamente passate in rassegna negli album fotografici (digitali) degli ultimi quindici anni. D’Urso non si lascia scappare nemmeno uno tra i possibili bozzetti auto-compiaciuti dello scrittore maledetto versione tre punto zero: il lavoro alienante nel call center per pagare l’affitto, affrontato con strafottenza rispetto alla grinta dei lobotomizzati colleghi, schiavi del Duemila verso i quali abbondano gli sfottò (persino sul modo di vestire); il mondo dell’università, tra baroni e dottorati di ricerca assegnati ad amici e parenti; la difficoltà a piazzare un buon libro (anche Moccia quando scrive è convinto di produrre dei capolavori) a una casa editrice decente, se non si è figli o nipoti di; le rimpatriate con gli amici di un tempo tramutatisi in ceto impiegatizio e product manager, che hanno perso la spontaneità e la semplicità di una volta.
Anche l’immagine della città che ne viene fuori contribuisce al tratteggio del solito quadretto che passa per le bancarelle di libri, le piazze affollate e inondate dal sole, le strade strette che tolgono l’aria, le storie di trentenni intraprendenti che chiudono bed and breakfast sopraffatti dalla camorra. Così, alla ricerca di una casa editrice che apprezzi il suo lavoro, il protagonista va avanti per duecentosessanta pagine, un po’ depresso un po’ orgoglioso per la sua incapacità di vestirsi decentemente o essere un coinquilino affidabile, per le bottiglie di vino scadenti consumate sui marciapiedi di piazza Bellini, per la passione per il calcio che svanirebbe a trent’anni, quando ci sono cose più importanti (!) a cui pensare.
Su un piano generale il libro si fonda sui due filoni principe della narrativa commerciale degli ultimi anni: l’autobiografia e quello che si potrebbe definire il “romanzo dell’incertezza”. Tuttavia, se il termine “precarietà” è diventato un hashtag sempre a portata di mano e una miniera d’oro per registi e scrittori, è anche per l’attitudine della generazione degli immutabili trentenni (ma saremo almeno un po’ diversi da quelli de L’Ultimo bacio, 2001?) ad affondare la testa tra i suoi ispidi seni. Attraverso questo genere di ritrattistiche l’instabilità lavorativa, sentimentale, sociale (e chi le provoca) smettono di essere il nemico (di classe, si sarebbe detto una volta) ma diventano una condizione necessaria subita da tutti, della quale i figli dei garantiti possono pure sorridere, come nel libro, mentre i poveracci (quelli veri) aspirano al massimo a rappresentarla comparendo in lacrime in un servizio di Ballarò. La precarietà non è una scelta politica imposta da precisi interessi e formalizzata da leggi dello stato, ma una specie di morbo di cui è infetta la società, che si combatte non cercando un modo alternativo di vivere, ma nominandola lamentosamente e di continuo, finendo per esorcizzarla esattamente come richiesto. Tanti dei narratori che avrebbero potuto raccontare gli aspetti più marginali e interessanti che questa provoca nelle nostre vite, negli anni hanno scelto invece questa strada così facile e noiosa, che diventa ancor più comoda se può appoggiarsi all’eterno filone delle immagini delle giacche sdrucite e delle barbe trasandate degli scrittori senza telefonino, delle case piene di libri e mozziconi di sigaretta ma senza nemmeno una latta di pelati in credenza. Finendo per affogare la propria frustrazione in una goffa ironia e sognando di essere tutti nel Quartiere Latino. Come se il vecchio Murger non l’avesse scritta già nel 1851, la sua Vita da bohème. (riccardo rosa)