Una nave anfibia, due pattugliatori, due fregate, quattro elicotteri, un aereo, un sistema integrato di droni e radar. No, l’Italia non si prepara a invadere qualche remoto Paese della mappa mondiale per iniziare una nuova avventura coloniale. I mezzi sopra citati sono quelli impiegati nell’operazione Mare Nostrum, avviata il 15 ottobre scorso con due obiettivi fondamentali: rafforzare il controllo del Mar Mediterraneo e migliorare le operazioni di salvataggio in mare.
L’operazione è stata decisa a circa due settimane dalla morte di oltre trecentocinquanta migranti a soli ottocento metri dall’isola di Lampedusa, il 3 ottobre scorso. Quest’estate però, mente centinaia tra uomini, donne e bambini perdevano la vita nelle acque del Mediterraneo cercando di raggiungere il sogno europeo, altrettanti, appena arrivati sulle coste italiane, mettevano in scena manifestazioni e proteste pacifiche rivendicando un diritto che diritto più non è: la libera circolazione degli uomini.
Per raccontarvi questa storia dobbiamo però fare un passo indietro di dieci anni, al 2003, quando l’Unione Europea adotta una serie di norme che prendono il nome di Dublino II. Grazie a questo regolamento ogni straniero arrivato in Europa in fuga da persecuzioni che gli garantiscano la possibilità di richiedere asilo politico, dovrà necessariamente rimanere nel primo Paese dell’Unione in cui ha fatto domanda d’asilo. Tale norma avrebbe dovuto impedire il cosiddetto asylum shopping, ovvero la possibilità che una persona facesse richiesta d’asilo in più stati europei sperando così di ottenere una risposta positiva almeno in uno di questi. Cosa c’entra però il regolamento Dublino II con le proteste di eritrei e somali che quest’estate hanno riempito tanto i vicoli di Lampedusa quanto le colonne dei giornali nostrani? C’entra tutto! Eritrei, somali, siriani, in fuga da regimi dittatoriali e persecuzioni arrivano in Italia consapevoli che, se saranno costretti a presentare domanda d’asilo politico qui, dovranno rimanere per anni in un Paese in profonda crisi economica, dove l’assenza di lavoro si unisce alle difficoltà peculiari dei richiedenti asilo in Italia privati di qualunque tipo di assistenza sociale ed economica. Quest’estate, quello che questi “viaggiatori forzati” chiedevano era quindi molto semplice: la possibilità di proseguire il proprio viaggio verso il nord Europa dove già vivevano amici e familiari e l’assistenza garantita ai richiedenti asilo era nettamente migliore. Quello che l’Europa voleva era che questi “viaggiatori forzati” rispettassero norme che gli erano state imposte e che in fin dei conti non riuscivano a capire pienamente. Quello che le autorità nazionali, le forze dell’ordine, i cittadini lampedusani e italiani volevano invece era, probabilmente, molto più vicino ai desideri di questi “viaggiatori forzati” che a quelli dell’Europa. Tuttavia, per onorare le regole del gioco, le autorità italiane hanno prima bluffato, assicurando che non si sarebbe fatto alcun riconoscimento dei migranti, e trasferendo poi gli stessi in piccoli gruppi nei centri di accoglienza della penisola; e poi hanno usato la violenza, costringendo con la forza queste persone al rilascio delle proprie impronte digitali e condannandoli per anni a vivere in Italia.
Questi “viaggiatori forzati” hanno insomma perso la loro battaglia. Ma a perdere è stata anche l’Italia, che non ha saputo intravedere in queste proteste l’occasione di rivendicare una riforma del sistema integrato d’asilo europeo il quale, scaricando sugli stati di frontiera l’onere dell’assistenza e della gestione dei possibili richiedenti asilo, non si pone come obiettivo un reale inserimento sociale di questi ultimi ma soltanto di servirsi delle criticità intrinseche al sistema per scoraggiare i futuri “viaggiatori” in rotta verso l’Europa.
Per conoscere di più sugli sbarchi degli ultimi mesi, sulla storia delle navi madre, dei corridoi umanitari e delle proteste dei richiedenti asilo a Lampedusa, ascolta l’ultima puntata di Passpartù, la radio a porte aperte. (marco stefanelli)