
Venerdì 1 ottobre – Student Strike for Future 2021
«Ehi, ma voi lo sapete dov’è sta cosa?», domanda il ragazzo varcando i tornelli del metrò. Le due ragazze si girano appena mentre corrono rapide verso l’uscita della metropolitana tenendosi per mano. Un po’ interdetto, il ragazzo prosegue nella stessa direzione. Oltrepassati i tornelli, prendo anch’io la strada delle ragazze e salgo le scale.
Largo Cairoli è stracolmo di giovani, l’eccitazione è nell’aria, la musica trap – che alla partenza del corteo lascerà spazio anche a Smell Like Teen Spirit dei Nirvana – viene diffusa ad alto volume e un movimento costante mi circonda: chi si cerca, chi si trova, chi si abbraccia, chi manda la posizione, chi scatta foto, chi si arrampica, chi finisce di scrivere il proprio cartello, chi rolla, chi sistema lo striscione, chi si guarda attorno proprio come me.
Mi muovo verso la testa del corteo per cercare di capirne la grandezza scivolando tra un corpo e l’altro, piacevolmente scaldata dai raggi di un sole che ci accompagnerà per tutto il percorso. Erano anni che non partecipavo a un corteo studentesco (nonostante quelli indetti dai Fridays for Future) e la mia mente non fa che tornare alle scuole superiori, quando ci si trovava sempre in largo Cairoli per manifestare contro la Moratti e la privatizzazione della scuola pubblica o contro la guerra in Iraq. A differenza di allora, mi pare che al giorno d’oggi ci sia più eterogeneità, meno birrette e una spiccata ironia. “Climate change is more real than your wife’s orgasm” è uno dei primi cartelli che noto alzando lo sguardo, seguito da “Senza il ghiaccio come lo facciamo il Mojito?”, “Oltre i 40° solo la Sambuca!”, “Le stagioni sono più irregolari del mio ciclo”, “I want guys hot, not planet hot”, “Amici amici e poi non usi la bici”. A questi slogan si alternano messaggi più esplicitamente politici come “Another world is necessary”, “Destroy the patriarchy, not the planet”, “Eco not Ego”, “Siamo giovani! Siamo incazzati! Abbiamo ragione!”, “Sesso. Ora che ho la vostra attenzione parliamo del clima!”, “We can’t eat coal. We can’t drink oil. We can’t breathe money”, “When leaders act like kids, kids act like leaders”, “…e il naufragar m’è amaro in questa plastica”.
I cartelli racchiudono, in poche frasi, messaggi chiarissimi, impossibili da ignorare anche ai passanti più restii e impermeabili alle contestazioni. Sfilando per le vie del centro raggiungiamo piazza Affari dove, la notte prima, diverse decine di esponenti di Rise Up 4 Climate Justice hanno occupato le scalinate della Borsa di Milano in quanto “simbolo del sistema capitalista estrattivista che continua a speculare su corpi e territori del nostro pianeta”. Il grande striscione esposto dagli attivisti ambientali che recita “O la borsa o la vita” è ben visibile da lontano e davanti a questo si raccolgono, minuto dopo minuto, centinaia di persone. Dietro lo striscione, al riparo dagli sguardi della Digos, prende corpo un’azione dimostrativa che verrà svelata al “pubblico” solo una volta che lo striscione scivolerà via, quando sarà possibile vedere le mura della Borsa ricoperte d’impronte di mani dal colore rosso acceso. La tempera rossa è stata lasciata sul posto, così che altre mani si aggiungono a quelle già presenti completando l’opera.
Lentamente il corteo riprende il suo corso e in un’ora circa ci ritroviamo in zona Lotto. Il passaggio davanti al centro sociale Cantiere in via Monte Rosa è quasi d’obbligo prima di proseguire per l’ultimo tratto e arrivare in piazzale Chiesa, dove un palco attende gli esponenti più in vista del movimento per un ultimo momento di confronto pubblico.
La strada percorsa è molta ed essendo sola ho la possibilità di muovermi liberamente all’interno del corteo: mi soffermo nei diversi spezzoni per osservarne le dinamiche interne e la composizione, scambio quattro chiacchiere con chi mi sta vicina, sorrido ai cori contro la Digos e i borghesi milanesi che tra l’impaurito e l’incuriosito valicano titubanti l’uscio di sontuosi portoni di inizio Novecento. Godo nel guardarmi attorno, cogliendo le sfumature di una composizione caleidoscopica, che include tipologie di persone molto diverse tra loro, soprattutto per quanto riguarda l’estetica. Le categorie a cui ricorro mentalmente per identificare la moda dei giovani che mi stanno intorno sono sicuramente troppo vecchie e inadeguate. Se da una parte questa sensazione mi fa restare sulle mie, dall’altra è questa distanza a provocarmi il desiderio di non sottrarmi, di partecipare a una lotta che vede in prima fila giovani e adolescenti completamente diversi da me.
Prima di lasciarmi il corteo e la piazza alle spalle mi arrampico su una ringhiera e mi godo la vista dall’alto, lasciando che la folla sfili sotto di me. Scatto le ultime foto incrociando diversi sguardi verso cui ricambio un sorriso che ha il sapore della complicità.
Sabato 2 ottobre – Global March for Climate Justice
L’appuntamento è anche per oggi a largo Cairoli. Riprendo le scale di ieri ma quando emergo mi accoglie una composizione di piazza radicalmente diversa: alla moltitudine di giovani di ieri mattina si alternano soprattutto over trenta e over cinquanta, ai cartelli ironici bandiere di associazioni, partiti politici, sindacati. Qua e là è possibile incontrare una maglietta di Che Guevara o dello YPG. L’eterogeneità resta una caratteristica della piazza e tra una barba bianca e una canzone dei Modena City Ramblers incrocio gruppi di studenti universitari o esponenti dei centri sociali milanesi. Anche se numericamente inferiore rispetto a ieri, la Global March for Climate Justice richiama a sé diverse migliaia di persone e sono davvero decine le sigle scese in campo.
Anche oggi sono sola, e come di consueto inizio a guardarmi attorno approfittando di una banchina della metro su cui riesco ad arrampicarmi facilmente. Con piacere noto la presenza della storica Banda degli Ottoni e di un gruppo di Murga in procinto di cominciare a ballare e suonare. Resto appollaiata per una mezz’ora abbondante, scrutando dall’alto la composizione del corteo: proprio sotto di me un gruppetto di ragazzi e ragazze tra i nove e i tredici anni intona lo slogan: “Vogliamo fatti, non parole!”, ripetendolo così assiduamente al punto che gli adulti davanti a loro non possono che unirsi al coro che, piano piano, si diffonde a macchia d’olio per il corteo.
La manifestazione è festosa e tranquilla, seppur scandita da cori, interventi e rivendicazioni puntuali, che riescono a mettere in luce sia i molteplici aspetti della crisi ecologica, che le inadempienze politiche e le responsabilità di multinazionali e finanza. Non sono previste azioni dimostrative, ma quando il corteo arriva a City Life gli animi si scaldano e la rabbia, seppur espressa pacificamente, si fa più viva e manifesta. Il nuovo quartiere di lusso di Milano è a tutti gli effetti il simbolo del capitalismo e del consumismo contemporaneo: con il suo prezzo al metro quadro di circa diecimila euro, le sedi di grosse compagnie di assicurazioni come Generali, il parco e l’area pedonale che seppur di dominio pubblico restano a uso e consumo dei suoi abitanti e di chi, a tutti gli effetti, ha interesse e possibilità di accedere al quartiere, City Life è l’emblema della ricchezza, della privatizzazione, del consumo (e non solo di suolo) e del green-washing. Vigilantes privati, polizia e Digos proteggono l’accesso al quartiere e al parco che, nonostante sia a tutti gli effetti uno spazio pubblico, in vista della manifestazione è stato chiuso al fine di impedirne l’accesso, come effettivamente scopriremo alla fine del percorso, nel momento in cui il corteo, arrivato proprio davanti all’ingresso del parco, ne trova i cancelli chiusi con catene e lucchetti. Alcuni manifestanti non si lasciano però scoraggiare da questo sbarramento e, scavalcati i cancelli, riescono a issare lo striscione “Another World is Necessary” sui giochi dei bambini.
Lo slogan, una rivisitazione contemporanea del leitmotiv del G8 di Genova, esprime in poche parole l’urgenza dell’azione e dell’immediato cambiamento richiesto dal movimento ecologista. La riflessione sul presente accompagna spesso le rivendicazioni per il futuro, e questo rimanda a un altro concetto ricorrente durante queste manifestazioni: il tempo. Perché se è vero che la crisi climatica ci fa mettere in discussione il presente, condannare il passato e preoccupare per il futuro, purtroppo lascia spazio anche a una “filosofia della resa e della catastrofe” che offre riparo nell’indifferenza e nel nichilismo. Occorre allora tenere bene a mente le parole del narratore, poeta e drammaturgo islandese Andri Snær Magnason quando nel suo libro Il tempo e l’acqua si domanda se la filosofia della resa diventerà l’ennesimo simbolo del nostro egocentrismo incontrollato. Considerati questi due giorni sembrerebbe proprio di no! (rita marzio)