
Piccole storie dalle montagne di Guerrero è una raccolta di brevi ritratti, testimonianze, narrazioni, messe insieme lungo la strada che conduce a Vicente, villaggio messicano così chiamato perché proprio lì pare abbia soggiornato Vicente Guerrero nel corso di una delle campagne militari per la liberazione del Messico. Vicente si trova nel municipio di Metlatonoc, nella Regione della montagna dello stato di Guerrero. A pochi chilometri da Vicente si trova il villaggio di Nopal, dove si muovono altri dei personaggi raccontati in questi testi.
Prima della loro comparsa, c’è stata lunga notte di viaggio, da Città del Messico a Tlapa. È un viaggio che tiene insieme due mondi distanti, quello dei grattacieli della città e quello delle strade fangose di montagna. Ma la notte è il tempo migliore per viaggiare, da queste parti: c’è un rischio minore di essere paralizzati nel traffico o nei blocchi stradali dei gruppi di manifestanti.
Lo stato di Guerrero era un tempo famoso per le spiagge di Acapulco, frequentate dalle star di Hollywood. Oggi è il catalizzatore mediatico di tanti disastri: dai cicloni alla povertà diffusa, dalla violenza al narcotraffico che occupa, con la forza delle armi, interi territori. Oggi, Guerrero, ha come principale fonte economica non più il turismo, ma la coltivazione e il commercio di droghe. In particolar modo, la Regione della montagna è un luogo isolato e difficile da raggiungere. Nella segregazione di quel territorio c’è la solitudine di un popolo rimasto ai margini dei processi di modernità e di occidentalizzazione che hanno coinvolto il Messico e l’America Latina. Qui, la polvere di secoli passati è ancora appiccicata ai vestiti dei suoi abitanti. Già dopo una notte di viaggio, s’è incollata subito anche ai miei.
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Fabiola
La mattina, nel pueblo di Nopal, è incantevole. Fabiola, uscendo da casa, osserva sempre il paesaggio che la circonda: le galline passeggiano insieme ai pulcini, i quali hanno dei fili sulle zampe per essere identificati; le donne raccolgono l’acqua dalla pompa per andare a farsi una doccia; qualche anziano si sposta in una zona nascosta per fare i suoi bisogni, non avendo una latrina dove poter defecare; il cielo non è ancora illuminato a giorno, ma sta per spuntare il sole tra le montagne. Quelle vette sono alte, ricoperte da alberi che possono crescere solo in zone aride. A Fabiola incutono un senso di oppressione. Non le permettono di vedere il futuro e l’orizzonte. Inoltre, per quanto l’aria mattutina sia particolarmente fresca, a Fabiola blocca il respiro.
Allora decide, di solito, di rientrare nella sua casa, la più povera di tutto il villaggio. Non ha muri di mattoni o di cemento, come le altre abitazioni, ma è sostenuta da pali di legno e ha come soffitto delle tegole rette da fragili travi. Il pavimento è costituito dalla sola terra e, alle volte, quando piove abbondantemente, è tutto un pantano. Fabiola osserva la mamma che sta impastando la masa per le tortillas, che di lì a poco porrà su di una piattaforma tondeggiante di metallo, riscaldata dal fuoco della legna. La colazione è quasi pronta ma lei è già stanca.
«Mi aiuti?», le chiede la mamma in mixteco.
«No nana hoy no, estoy cansada», risponde la figlia.
Proprio nel proferire il suo no, giungono di nuovo, a Fabiola, i suoi i giramenti di testa.
«Nana, llamame Rosi».
Vuole che sua madre le chiami Rosi, la sua unica figlia, che sta raccogliendo l’acqua alla pompa. Rosi arriva con le sue braccia minute e con un secchio quasi più pesante del suo corpo. La figlia di Fabiola entra mostrando il suo solito sorriso che ravviva i colori spenti di quella casa. La bambina aiuta la mamma a distendersi per terra, poggiando una stuoia sopra il pavimento.
La testa di Fabiola continua a girare e i ricordi cominciano a scorrere veloci. La ragazza ricorda il tempo in cui era felice, quando in quel villaggio respirava aria di libertà e di vita. A quei tempi Fabiola accompagnava la mamma a lavorare nei campi e le piaceva raccogliere i peperoncini che disseminavano il terreno. Lo amava, il peperoncino: le piaceva creare salse con cipolla che potessero accompagnare il pollo, le uova o i fagioli. Poi, un giorno, scoprì l’amore: s’innamorò di un ragazzo del villaggio più grande di lei, che volle subito sposarla. Lei era troppo ingenua per sapere che, per amare qualcuno, bisogna anche conoscerlo. E così disse di sì, non dando ascolto alla madre, a cui avevano imposto, parecchi anni prima, un matrimonio combinato.
Fabiola amava sentirsi libera. Fabiola amava il respiro e amava il peperoncino. Così si sposò, ma non appena rimase incinta suo marito sparì nel nulla. La ragazza non ebbe neanche la possibilità di divorziare, perché le consuetudini del villaggio non glielo permettevano. Per cercare un nuovo marito avrebbe dovuto trasferirsi in un altro villaggio. Così, un giorno, perse la sua felicità.
Dopo la nascita di sua figlia cominciò ad avere dolori sempre più persistenti alla testa. Non riusciva più a respirare bene. Non riusciva più a sbrigare le faccende domestiche. Non riusciva più a impastare la masa. Non riusciva più a lavorare nei campi. Tutti i cibi piccanti le causavano un bruciore di stomaco fortissimo. A quel punto si stendeva sulla sua stuoia e poteva rimanere sdraiata per giornate intere senza far nulla. Il tempo, per lei, sembrava non finire mai: non amava più la vita, non amava più il peperoncino e aveva dimenticato cosa fosse la libertà.
Nel frattempo Rosi cresceva e imparò a essere adulta già alla sua tenera età. Nel villaggio erano arrivate grandi opportunità di ricchezza. Tramite un accordo con i narcotrafficanti, i contadini delle montagne avevano cominciato a coltivare la amapola. Con questa pianta arrivarono cospicui guadagni: si costruirono nuove case in cemento, nuove botteghe che vendevano prodotti occidentali, nuove strade asfaltate e nuove chiese sempre più grandi. I contadini rivendevano la sostanza ai narcos che la rielaboravano e ne ricavavano enormi profitti, esportandola illegalmente negli Stati Uniti.
Fabiola osservava la rinascita economica del suo villaggio e di quelli circostanti con un senso d’impotenza. Non poteva trarre beneficio da questa grande opportunità. La sua casa era rimasta una baracca di legno, mentre le altre furono tutte abbattute e ricostruite. Quando Rosi ebbe compiuto sei anni, Fabiola decise di iscriverla alla scuola primaria e, contemporaneamente, di farla lavorare nei campi. Le sue mani piccole potevano maneggiare con cura i fiori di papavero. Rosi riusciva, così, a portare a casa quel minimo che serviva per la sopravvivenza.
Oggi Fabiola guarda spesso sua figlia: i suoi occhi sottili le ricordano quell’uomo che la aveva tradita. Nonostante questo, la ragazza non smette di amarla, perché riconosce in lei la voglia di vita che le apparteneva prima che nascesse. Quando vado a trovarla nella sua casa, vedo Fabiola distesa sulla sua stuoia in paglia. Lei alza il capo, mi sorride, mostrando la sua dentatura bianca e perfetta, poi ripone di nuovo la testa sul pavimento. In quel gesto vedo tutta la sua bellezza: la sua pelle liscia e olivastra, i suoi occhi stanchi ma mai spenti, i suoi capelli castani lunghi e curati e la corporatura di una giovane donna ancora piena di vita. Penso tra me: «Chi l’ha detto che la depressione esiste solo tra i ricchi…».
Mi piace conversare con Fabiola e farmi raccontare tutte le vicende che riguardano le persone del villaggio. Di solito, mentre parliamo, chiede a sua figlia Rosi di prendere qualche pesos dalla piccola borsa di stoffa per comprarmi una coca cola. La bambina, dopo aver prelevato il denaro, sfreccia verso la bottega di fronte e torna, qualche minuto dopo, con una bottiglia di vetro tra le mani.
«Mi fa piacere che tu mi venga trovare», mi dice Fabiola. «Sai… qui è difficile che qualcuno mi ascolti». (delio montieri)