A Milano, una famiglia con minori che si rivolge all’amministrazione comunale perché è in difficoltà, senza casa a causa di uno sfratto o dell’impossibilità di affittarla, quasi sicuramente finisce per essere presa in carico dai servizi sociali piuttosto che da quelli abitativi. Lo affermano gli attivisti della Rete solidale Ci Siamo che, in seguito agli sgomberi delle occupazioni abitative degli stabili di via Siusi e di via Esterle, e all’incendio del capannone di via Fracastoro, hanno seguito diverse famiglie di lavoratori stranieri prese in carico dai servizi sociali del comune di Milano e ha potuto constatare quanto segue.
Con l’intervento del servizio sociale territoriale, il bisogno di una casa, che fino a quel momento rappresentava la necessità prevalente, passa in secondo piano a causa di una lettura erronea del disagio che si concentra sulle “colpe” del nucleo familiare piuttosto che inquadrare la sua condizione all’interno di un contesto sempre più escludente, precario e razzista. Questo pregiudizio verso le persone povere, molto radicato tra gli assistenti sociali, porta a una conseguenza altrettanto dannosa, cioè quella di considerare il nucleo familiare divisibile, da una parte la mamma con i figli minori, dall’altra il padre con quelli maggiori, come se per la tutela e il benessere dei minori non fossero importanti l’unità della famiglia e la figura paterna.
Una consuetudine ormai diffusa, che prevede l’individuazione di soluzioni abitative temporanee e in emergenza solo per i soggetti fragili del nucleo familiare, a cui viene offerta nell’immediato ospitalità in strutture di accoglienza definite di bassa soglia come i dormitori pubblici. L’accesso in queste strutture, costituite da spazi angusti e asettici con regole rigide e vessatorie, avviene nella maggioranza dei casi senza rendere noto il tempo che si resterà al loro interno e neppure quale altra soluzione più stabile e duratura verrà individuata dal servizio sociale territoriale.
Dunque, si resta a lungo separati, in una condizione di incertezza sul futuro, precarietà quotidiana e di assoluta dipendenza e assoggettamento alle scelte degli assistenti sociali. Questi agiscono in totale autonomia individuando, tra le risorse a disposizione del pubblico, quella che ritengono più adeguata ai soggetti “fragili” del nucleo familiare, ed escludendo sistematicamente gli altri: padre e figli maggiorenni. Si tratta di soluzioni abitative temporanee, come le case di accoglienza o le residenze sociali, gestite dal privato sociale con costi molto elevati per il pubblico, che nella maggioranza dei casi non rispondono al bisogno di casa espresso al momento della presa in carico, ma infantilizzano gli adulti e prolungando a tempo indeterminato la loro condizione emergenziale, fino a trasformarla in “ordinaria”.
Il più delle volte queste “soluzioni”, presentate come l’unica risorsa che l’Amministrazione può mettere in campo, vengono imposte dagli assistenti sociali alle sole donne, in assenza dei mariti e solo verbalmente, con notevoli pressioni affinché queste siano accettate o meno in tempi molto brevi, un paio di giorni al massimo. Se la famiglia, nonostante le pressioni ricevute, mostra dubbi sulla proposta individuata oppure la rifiuta chiedendo una soluzione abitativa dignitosa, stabile e duratura per l’intero nucleo familiare, allora gli assistenti sociali cambiano registro: prima minacciano la segnalazione al Tribunale dei minori, successivamente intimano alla donna con i figli minori di lasciare la struttura in cui sono ospitati, per poi allontanarli con la forza.
In questo modo, il servizio sociale territoriale, con arbitrio e ostilità, sposta ulteriormente il piano del discorso, da quello abitativo a quello assistenziale a quello penale, cioè ti dice in modo brusco e netto: “O fai esattamente quello che diciamo noi, oppure te ne puoi andare e lasciare il posto a qualcun altro. Se non lo fai, ti cacciamo e ti denunciamo!”.
STORIA DI UNA FAMIGLIA SFOLLATA DA UNO STABILE OCCUPATO A CAUSA DI UN INCENDIO
Marito: Io, mia moglie e mia figlia piccola siamo in Italia dal giugno 2023. Abbiamo deciso di venire qua perché in Perù abbiamo avuto problemi con le persone che chiedono soldi senza lavorare e, se non li dai, ammazzano qualcuno della tua famiglia. Io lavoravo nel comune della mia città, ero responsabile dei mezzi di trasporto e queste persone venivano da me a chiedere soldi. Io però ho detto di no. Dopo che sono andato a fare la denuncia, ci hanno chiamato, hanno detto che noi siamo fregati, che ammazzano qualcuno di noi. Allora siamo scappati perché la polizia non dà protezione a chi denuncia. Due mesi dopo la persona che ha preso il mio posto è stata ammazzata. Neanche lui voleva dare soldi ed è morto perché quello che ti dicono: “Se non mi dai i soldi, ti ammazzo”, è vero.
Prima di partire abbiamo venduto tutto quello che avevamo in Perù: materasso, letto, macchina, e abbiamo fatto un bonifico di tremila euro a una persona che diceva di essere nostra amica così lei poteva trovarci una casa a Milano. Ma quando siamo arrivati in Italia, le abbiamo scritto su Facebook, ma non abbiamo ricevuto risposta, lei è sparita. A Malpensa abbiamo preso un pullman che ci ha portato alla Stazione Centrale. Lì siamo scesi e abbiamo incontrato una donna peruviana che ci ha dato da mangiare e dopo ci ha portato al Centro Sammartini, ma a Sammartini ci hanno detto che i posti al dormitorio erano tutti occupati. Per due giorni abbiamo dormito sotto un ponte, dopo un’altra signora peruviana ci ha detto che potevamo andare nella casa dove lei lavorava. Lei faceva la badante, si prendeva cura di una donna che adesso è morta. Così ci ha dato un posto dove dormire da mezzanotte fino alle sei di mattina. Io facevo prima la pulizia dei vetri, dopo consegnavo le pizze, così raccoglievo un po’ di soldi per vivere.
Poi siamo arrivati a Fracastoro (occupazione abitativa sostenuta dalla Rete solidale Ci Siamo). Andavamo sempre a Loreto, lì ci sono tanti nostri connazionali. Un giorno abbiamo conosciuto un uomo, che ci ha detto: “Andate a questo indirizzo, lì troveranno una soluzione per la vostra famiglia”.
La prima volta sono andato da solo, perché mia moglie quel giorno lavorava a casa della donna che ci aveva dato un aiuto. Era un mercoledì, le persone che c’erano mi hanno detto di tornare domenica, perché la domenica c’è un’assemblea con tutti gli abitanti. Sono tornato e mi hanno detto che il mercoledì dopo avrebbero trovato una soluzione. Allora ho detto a mia moglie di venire con me così loro guardano che io dico la verità, che non sono una persona che fa casino, non sono violento, non consumo droghe, sono un tecnico elettricista, sono una persona che è venuta in Italia per una vita migliore. Quindi siamo andati insieme e ci hanno detto che potevamo restare in quel posto finché non trovavamo un lavoro e qualche cosa di meglio da affittare a Milano.
A Fracastoro la nostra vita è cambiata. Quando siamo arrivati, non avevamo i documenti, non avevamo lavoro, non capivamo la lingua italiana, poi ci siamo sistemati, ho trovato lavoro, ho fatto i documenti e ho iniziato a mandare i soldi ai miei figli in Perù, anche alla mia mamma e alla mamma della mia moglie. Ma a settembre è successo questo evento brutto, l’incendio, e dopo di questo siamo finiti un’altra volta in strada.
Cosa è successo la mattina dell’incendio?
Marito: La prima cosa che ho fatto è stata prendere mia figlia e portarla fuori da questo posto con mia moglie, poi sono rientrato per dire alle persone che erano dentro, che in quel momento dormivano, di uscire subito. Dopo ho preso da solo cinque-sei bombole perché tutti prendevano le loro cose e scappavano. Poi sono rientrato un’altra volta per prendere i vestiti di mia figlia e di mia moglie. Ho buttato tutto dalla finestra. Quindi ho visto che il fuoco era tanto e sono scappato via, lasciando tutte le altre nostre cose dentro: il mio monopattino, con cui andavo a lavoro, e i soldi che avevamo messo da parte, che erano in un posto nascosto.
Un’ora dopo l’incendio sono arrivati i vigili del fuoco. Dopo quattro ore è arrivata anche la Protezione civile. In quel momento ci hanno detto che ci spostavano in un posto sicuro: al dormitorio comunale di viale Ortles, dove alla data di oggi siamo da quasi due mesi. Per tre giorni abbiamo dormito tutti insieme al secondo piano del dormitorio. Lì ci hanno chiesto se lavoravamo, se avevamo i documenti, cosa facevamo qua in Italia. Ci hanno fatto tante domande. Il terzo giorno ci hanno diviso: mia moglie e mia figlia sono andati in un padiglione, io in un altro.
Moglie: La situazione in Ortles è così, la colazione è dalle 7:30 alle 8:30, il pranzo è dalle 12:00 alle 13:00, la cena dalle 18:30 alle 19:30. Alle 9:00 dobbiamo uscire dalla stanza e stare fuori fino alle 13:00. Le persone che lavorano lì, quando noi usciamo dalle stanze, cercano tra le tue cose, controllano tutto, non puoi tenere niente, neppure il cibo, né un frutto, né un biscotto, niente. Mia figlia è abituata a mangiare il cibo che cucino io, il cibo peruviano. La prima volta in Ortles ha mangiato un po’ perché per lei era qualcosa di nuovo, ma dopo non ha mangiato più. Anche per questo lei è stata una settimana con la febbre, la tosse, proprio male. E quando è stata male, la mattina comunque dovevamo uscire dalla stanza. Se il dottore non dice che puoi restare, non ti lasciano stare, devi andare fuori come tutti. Per me quella non è vita, lei è piccola, ha solo due anni, e fuori fa tanto freddo. Anche io, che sono incinta al settimo mese, a volte sto un po’ male con la pancia, mi fa male la schiena, ma non possiamo restare lì a riposare, dobbiamo andare fuori, dobbiamo stare in giro.
A un certo punto vi hanno chiamato per farvi una proposta. Ci raccontate come è andata?
Moglie: Un giorno mi ha chiamato l’assistente sociale e mi ha detto che c’era una proposta buonissima, che dovevo andare con mia figlia in una comunità in un paesino in provincia di Pavia. Io ho pensato che intendesse insieme con mio marito, però lui mi ha detto di no: da sola con mia figlia. Mi ha detto che dovevo accettare questa proposta, e che non sarei potuta stare più lì dopo il parto. Io ho detto che prima dovevo parlare con mio marito per capire cosa fare, perché per me non andava bene che io dovevo andare lì, lontana da mio marito.
Marito: Quando lei mi ha chiamato, piangeva ed era spaventata. Gli ho detto di stare calma, che qualsiasi decisione la prenderemo quando io torno da lavoro. Quindi quel giorno non ho fatto neanche lo straordinario, ho preso i mezzi di trasporto e sono andato subito da mia moglie. Poi ho chiamato le persone della Rete Ci Siamo, per sapere cosa dovevamo fare. Mi hanno detto che dovevamo stare tranquilli, che non ci avrebbero tolto la nostra figlia, di non accettare, né firmare. Abbiamo fatto quello che ci hanno consigliato, perché noi non sappiamo nulla dei diritti qua in Italia.
Moglie: Il giorno dopo l’incontro con l’assistente sociale, sono andata insieme con mio marito anche dalla direttrice di Ortles. Lei ci ha detto che era una buona soluzione per noi, per la nostra famiglia, che mio marito poteva venire a trovarci. Ma se per venire da noi deve rinunciare al lavoro, come sostiene la famiglia, come manda i soldi al paese? Per quello noi non abbiamo accettato la proposta. Così mi hanno detto che non avendo accettato la proposta, dovevano chiamare il Tribunale dei minori. Io non bevo alcool, non fumo, sono una persona che apprende giorno per giorno la lingua italiana, che ha sempre fatto le cose per bene. Io ho paura di questa cosa che mi hanno detto, che loro possono allontanare la mia figlia da me. Per quello ho detto a mio marito che preferivo andare via da questo paese prima che mi tolgono mia figlia. Sono andata anche a un’agenzia per comprare il biglietto, però la dottoressa mi ha detto che non potevo più viaggiare dopo la trentaseiesima settimana di gravidanza, che era pericoloso per me.
Marito: Alla data di oggi, noi siamo tranquilli, sì, però non è vero che lo siamo, perché abbiamo ancora un po’ di paura, perché se compro il biglietto aereo a mia moglie, per farla tornare al paese, questo non va bene perché io invece non posso tornare, perché le persone che ho denunciato nel mio paese mi cercano per farmi qualcosa, magari ammazzarmi. Ma se rimaniamo qua in Italia non abbiamo un posto dove stare anche se abbiamo il lavoro, paghiamo i contributi, siamo persone tranquille. A questo punto non sappiamo cosa fare. Stiamo aspettando una soluzione dal comune di Milano, ma alla data di oggi non abbiamo ancora una risposta, non sappiamo cosa aspettarci domani. (redazione monitor milano)
PRESIDIO
Per protestare contro l’attuale politica sociale del comune di Milano, per riportare al centro del dibattito la questione della casa, per l’autonomia, l’emancipazione e la responsabilizzazione degli individui, la Rete solidale Ci Siamo ha indetto un presidio davanti all’assessorato al Welfare in via Sile, 8 per martedì 26 novembre alle ore 10.